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Lo "scultore degli angeli" era tutt'altro che angelico: la vita segreta di Giacomo Serpotta

Se oggi si riconosce il valore dell’artista geniale, la vita privata dell’uomo rimane spesso piena di chiaroscuri e di segreti irrisolti. Serpotta, tra genio e sregolatezza

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 11 febbraio 2022

Putti in stucco di Giacomo Serpotta

"Avete un tesoro in questa città ed io voglio riportarlo alla luce" affermava lo storico dell’arte Donald Garstang, alla fine del secolo scorso.

Lo studioso, di origine statunitense, ma naturalizzato Britannico, si battè a lungo perché venisse riconosciuta l'importanza artistica del magister palermitano Giacomo Serpotta, il più grande stuccatore di tutti i tempi, colui che elevò a dignità d’arte la tecnica degli stuccatori siciliani.

Si deve effettivamente riconoscere al Garstang il merito della riscoperta critica di Giacomo Serpotta (1656-1732), con la pubblicazione di una monografia scritta in lingua inglese nel 1984.

"Con appassionata e ammirata partecipazione" lo studioso ha "sdoganato" la figura di Giacomo Serpotta, inquadrandolo nella sua globalità di decoratore e maestro dello stucco, fautore di un grande capitolo per la storia dell’arte in Sicilia.

Si rimane stupiti davanti alle opere plasmate dal maestro, piccoli e grandi capolavori, perfetti in ogni dettaglio, spesso inseriti in uno scenografico impianto decorativo barocco, all’interno di chiese e oratori: drammatici "teatrini"; muscolosi telamoni di una bellezza disarmante; algide figure femminili abbigliate secondo la moda leziosa del settecento; bimbi ignudi che si baciano sulla bocca, che piangono, che si fanno i dispetti; angeli dalle grandi ali spiegate che sembrano scrutare il visitatore.
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Lo stucco sembra quasi animarsi e prender vita, per l’intimo dinamismo che connota ogni figura. Un'arte raffinata realizzata con un materiale povero, lo stucco, lavorato con una tecnica particolare, l’allustratura, che veniva particolarmente apprezzata dai committenti.

Veniva aggiunta allo stucco ancora umido della polvere di marmo, che dava alle sculture una lucentezza che purtoppo oggi spesso non è più visibile, a causa dei danni causati dai numerosi restauri, dal tempo, dalla polvere. La mistura segreta di questa tecnica, le proporzioni dei materiali utilizzati, il maestro la portò con sè nella tomba.

Se oggi si riconosce il valore dell’artista geniale, la vita privata dell’uomo rimane spesso segreta, piena di chiaroscuri e misteri irrisolti. Il destino del piccolo Giacomo Isidoro Nicolò Serpotta, nato alla Kalsa nel 1656, sembrò segnato sin dalla nascita: il padre Gaspare era stuccatore, marmoraro e scultore e anche la madre, Antonina Travaglia, proveniva da una famiglia di artisti lapicidi.

A tenerlo a battesimo fu lo scultore Isidoro Geraci. I primi anni di vita tuttavia non devono esser stati felici, il padre Gaspare aveva un pessimo carattere, era un uomo difficile e violento, pronto a venire alle mani, amante dei cavalli e del gioco d’azzardo.

Nel 1664 fu accoltellato in una rissa, forse per non aver restituito una forte somma di denaro; fu ferito gravemente e trovandosi a letto, in punto di morte fece persino testamento. Nel 1668 fu arrestato per debiti e venne condannato ai lavori forzati, a remare nelle regie galee. Stremato da fatiche a cui non era certo avvezzo morì sulla nave, due anni dopo. La salma venne sbarcata a Palermo e il marmoraro venne sepolto a Palermo, nella chiesa di San Raimondo al molo.

Lasciò la moglie disperata, con cinque figli, tre maschi e due femmine: Giuseppe, Giacomo, Ludovico, Teresa e Rosalia. Antonina fu costretta a vendere quel poco che la famiglia ancora possedeva, anche le incisioni del marito e Giuseppe e Giacomo cominciarono a lavorare in una bottega di scultori.

Giacomo ereditò non solo il talento artistico ma purtroppo anche il carattere irascibile del padre e nel 1678 litigò furiosamente con il collega Gaspare La Farina, riportando una grave ferita alla testa. Non poteva essere diversamente, genio e sregolatezza vanno spesso di pari passo.

Uno dei misteri della vita di Giacomo, molto dibattuto dagli studiosi, è se la sua conoscenza del barocco romano e in particolare dal Bernini, a cui la sua arte palesemente si ispira soprattutto nella maturità, sia frutto di un soggiorno a Roma o derivi da una conoscenza indiretta: stampe, incisioni.

Secondo critici autorevoli come il Meli e l’Argan la formazione del maestro sembrerebbe essere avvenuta in Sicilia, nelle botteghe locali: i Serpotta erano troppo poveri per poter permettersi di far soggiornare e studiare Giacomo a Roma.

Il carattere spigoloso di Giacomo si desume anche dalla scelta di non sposarsi mai e di vivere con la madre, la sorella Rosalia e il fratello maggiore Giuseppe. L’altra sorella Teresa era convolata a nozze con Gioacchino Vitagliano, scultore anch’esso.

Giacomo collaborò spesso con il cognato Gioacchino e lavorò col fratello Giuseppe per più di trent’anni, fino alla morte di quest’ultimo avvenuta nel 1719. I Serpotta venivano chiamati a prestare la loro opera di decoratori soprattutto in chiese e oratori. Il più talentuoso dei due fratelli fu Giacomo ma il Garstang attribuisce a Giuseppe il merito di avere insegnato al fratello minore i primi rudimenti dell’arte dello stucco.

Giuseppe tuttavia non riuscì ad elevarsi al di sopra dell’ordinario e dove viene riconosciuta esclusivamente la sua mano, si nota la diversa levatura artistica dei due artisti. A Giacomo si affiancò in seguito il figlio naturale Procopio, riconosciuto nel 1679, nato da madre rimasta ignota.

Costituisce uno strano enigma l’anonimato di questa donna e perché mai non furono celebrate delle nozze riparatrici pur avendo avuto un figlio?

Il Garstang scrive che secondo la studiosa Giulia Davì è probabile che la madre del ragazzo fosse la figlia di Procopio de Ferrari e che Serpotta diede al figlio questo nome all’atto del riconoscimento, in omaggio al suo socio e maestro, con cui lavorò nel 1677 nella piccola chiesa dell’Itria di Monreale.

Secondo Davì inoltre Procopio non nacque a Palermo, ma a Monreale . Il nome dato al bambino è inconsueto a Palermo, ed è il medesimo del maestro monrealese con cui lo stuccatore ha collaborato. Gli studiosi inoltre hanno ritrovato nelle parrocchie di Palermo i certificati di battesimo di tutti i Serpotta, tranne quello di Procopio. Il mistero resta irrisolto, almeno al momento.

I primi passi di Procopio stuccatore-scultore si mossero all’interno della bottega paterna e della sua équipe, come dimostrano i pagamenti versati al ragazzo. I rapporti tra padre e figlio non furono mai sereni, conflittuale e amara fu la loro collaborazione, tanto che Giacomo preferì vivere lontano da lui, a casa della sorella e dei nipoti. Procopio era invece molto amico dei pittori Antonino Grano e Guglielmo Borremans, entrambi padrini di battesimo di due dei suoi numerosi figlioli (ne ebbe 10).

Nonostante i difetti dell’uomo, l’artista in età matura era celebre in Sicilia e veniva chiamato a lavorare in varie parti dell’isola. Morì il 27 febbraio del 1732, dopo aver completato la decorazione dell’oratorio di San Francesco di Paola, distrutto nel 1942 e venne sepolto, per sua espressa volontà, nella chiesa di San Matteo al Cassaro.

Stabilì per testamento, dopo una lite con Procopio, che tutti i suoi beni, i suoi disegni e i suoi strumenti andassero alla sorella Rosalia vedova di Giuseppe Teresi. Lasciò somme per messe di suffragio della sua anima e modelli in terracotta ai suoi amici. Al figlio spettarono solo 4 once, per farsi un vestito di lutto.

Dopo un processo contro la zia Procopio tornò in possesso di “tutti li studi” del padre: modelli in gesso e creta, incisioni e disegni, gli strumenti primari per lo stuccatore come il metro, compassi, squadre e livelle, filo a piombo e stecche e cazzeruole per la modellazione plastica.

Gli strumenti dello stuccatore si lasciavano in eredità ai figli o agli allievi, come consuetudine, soprattutto per la preziosità degli utensili realizzati appositamente. Le liti familiari provocate dal testamento di Giacomo confermerebbero il poco amore che correva tra il padre e il figlio naturale.

Lo studioso Macaluso (1971) ha individuato nell’irregolare situazione familiare dell’artista una delle ragioni dei mancati voti come fratello laico gesuita. Scrive ancora il Garstang: "Che Procopio Serpotta sia stato l’erede artistico del padre è fuori discussione".

Nonostante non eguagli la squisita qualità del padre, Procopio può senza subbio essere considerato il più talentuoso della bottega del caposcuola Giacomo Procopio; un figlio illegittimo, problematico e difficile ma, s’intende, pur sempre un figlio.
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