CINEMA E TV
Da "cuntastorie" in paese, poi a teatro e sul set: così Pirrotta racconta la (vera) Sicilia
È nato all’ombra di una collina a forma di leone accovacciato, a Partinico. Adesso è attore, nella parte di Mussolini in "Duse" e regista di film come "Spaccaossa". La storia

Vincenzo Pirrotta sul set di "Spaccaossa"(foto di Valentina Glorioso)
Oggi è l’attore e regista – sia teatrale sia cinematografico – che sul palcoscenico ha portato in scena la straordinaria biografia del contadino siciliano semianalfabeta Vincenzo Rabito, "Terra matta", che ha operato la fusione delle tradizioni popolari nel teatro di sperimentazione, recuperando e scrivendo – con la compagnia teatrale di cui è direttore artistico, la sua Esperidio – storie siciliane come "N’Gnanzo’ù – Storie di mare e di pescatori", "Malaluna" o "La ballata delle balate"; al cinema è stato diretto da Marco Bellocchio nel suo "Il traditore" (in cui interpreta Luciano Liggio, la "primula rossa" di Corleone), da Matteo Rovere in "Il primo re", da Roberto Andò ne "L’abbaglio", ed è stato al fianco di Luigi Lo Cascio nella serie "The Bad Guy", o di Monica Bellucci e Toni Collette in "Mafia Mamma".
Nel 2022 ha firmato la regia del suo primo film, "Spaccaossa", che oltre Pirrotta vede nel cast Selene Caramazza, Aurora Quattrocchi, Ninni Bruschetta, Simona Malato, Luigi Lo Cascio e Filippo Luna, mentre adesso pensa ai prossimi capitoli della propria vita. Il più recente l’ha visto in sala con "Duse", il film di Pietro Marcello basato sull’ultima parte della vita di Eleonora Duse, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi.
Qui, Pirrotta interpreta Benito Mussolini, un ruolo che peraltro – sebbene appaia per pochissimo – aveva già interpretato in «Il cattivo poeta» di Gianluca Jodice, il film su Gabriele D’Annunzio, artista innamorato della Duse sin dai primi anni della sua produzione. «Ancora prima, avevo interpretato il capo della polizia fascista, Arturo Bocchini, nel cortometraggio di Giuseppe William Lombardo, «La particella fantasma», ispirato alla scomparsa di Ettore Majorana – racconta Pirrotta – . Sono ruoli che rappresentano una sfida per me stesso».
Sono personaggi che spesso «si riempiono di ridicolo», dice Pirrotta. Ne «La particella fantasma», ad esempio Bocchini sbianca quando la sorella di Majorana, Maria, osa pronunciare il nome di Charles Price in inglese, e non italianizzandolo in «Carlo Prezzo» come dettava il regime. «È un ridicolo di cui i personaggi non sono certamente consapevoli – continua Pirrotta – ma che si trasforma comunque in azioni e scelte malefiche, spietate. Non bisogna mai dimenticarsene».
Addentrarsi nelle pieghe della mente dei personaggi è un lavoro intricato, che Pirrotta svolge da sempre su due fronti: «In teatro hai più o meno sempre un mese di prove, al cinema studi un po’ prima che sia battuto il ciak ma devi avere già con te il personaggio. La differenza è che quando si apre il sipario, a teatro, sei senza rete. Devi andare e devi fare, stare lì un’ora e mezza, o due, o tre – m’è capitato di fare spettacoli da tre ore – e non hai nessuna protezione. Al cinema costruisci pian piano, col montaggio che è una seconda scrittura del film, anzi una terza, ma non per questo ci si può permettere di sbagliare tutte le volte che si vuole. C’è solo una protezione in più».
Sul set di "The Bad Guy", ad esempio, durante una scena con Luigi Lo Cascio, il personaggio interpretato da Vincenzo Pirrotta – Salvatore Tracina – andava a interrogare – racconta l’attore – tutti gli esponenti di una banda, ed era una scena che i registi, Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, volevano girare in piano sequenza, per un totale di cinque o sei minuti.
E ovviamente avevamo impostato tutti i movimenti insieme al direttore della fotografia e all’operatore, per agevolare la troupe, ma il grosso del lavoro era chiaramente sulle mie spalle perché per sei minuti non ci sarebbero state “protezioni” di alcun tipo. Qualcuno si chiese se un piano sequenza così lungo fosse possibile, se non fosse meglio spezzare la ripresa in qualche punto. Al che, Gigi (Lo Cascio, ndr.) fa: “Picciò, ma siti seri? Vincenzo fa piani sequenza di tre ore! Di che vi preoccupate?”. Ecco, in queste cose, arrivando dal teatro, mi sento molto più tranquillo».
Nei prossimi mesi, Pirrotta sarà in sala con due film: il primo è "Lo scuru" di Giuseppe William Lombardo, il secondo "La bambina di Chernobyl" di Massimo Nardin. In "Lo scuru", tratto dall’omonimo romanzo di Orazio Labbate, Pirrotta interpreta Padre Manfredi, il prete di Butera che si prende cura di Teresa, la madre del protagonista.
«Per prepararmi alla parte, ho lavorato come faccio sempre, d'accordo con il regista. A me piace confrontarmi continuamente con chi dirigerà il film, anche quando nella mia intimità lavoro sul personaggio e cerco di entrarvi dentro. Subito dopo mi confronto, in questo caso l’ho fatto con William. Per Padre Manfredi poi c’era una pietra miliare, che è il romanzo, scritto splendidamente da Orazio Labbate, con una scrittura intensa, forte, che descrive perfettamente il senso di tutti i personaggi.
Mi è servita perché da alcune suggestioni contenute tra le pagine sono riuscito a entrare nel personaggio con piccole brecce, che pian piano si sono allargate sino a potermene fare impadronire. È una tecnica che uso spesso, che mi aiuta nei momenti di vuoto in cui alcuni personaggi non mi sono arrivati subito.
È capitato spesso in teatro, con il Tamerlano di Marlowe, per esempio. Poi, appunto, trovi una piccola cosa, una piccola breccia che apre questo mondo in cui tu ti cali, ti tuffi, e ritorna l’entusiasmo che spero non mi manchi mai, il senso di scoperta… con tutte le inquietudini che un artista ha quando sposa un personaggio nuovo. Nel caso di Padre Manfredi ho immaginato il suo peso, il macigno che si porta dentro e che già è iniziato ad affiorare nelle prime pose».
Ne "La bambina di Chernobyl" di Massino Nardin, in cui Pirrotta è affiancato da Yeva Sai (Alina di «Mare fuori»), l’attore si è portato dentro il protagonista e la sua inquietudine profonda, facendo un lavoro molto intenso per entrare nella sua psicologia e anche «nel corpo di una persona malata di diabete, quasi alla sua fine, con il fisico che sta cadendo a pezzi. È un personaggio che mi è restato addosso, nonostante io sia di quelli che tendono a lasciare in camerino tutti i personaggi perché ho un approccio diverso rispetto a quello stanislavskiano, da Actors Studio».
È lì, in camerino, che ha lasciato per esempio il Vincenzo di "Spaccaossa", il suo esordio alla regia al cinema, un personaggio che lo stesso Pirrotta definisce «senza qualità», o Salvatore Tracina di «The Bad Guy», «il ruolo che ha convissuto con me per quattro mesi, essendo una serie».
Non gli è capitato con Vincenzo Rabito, il protagonista di "Terra matta" di cui è stato regista e interprete, vera storia – basata sull’omonima autobiografia – di Vincenzo Rabito, appunto, cantoniere semianalfabeta di Chiaramonte Gulfi, provincia di Ragusa: «La lingua di Rabito è unica. A me capita che durante la tournée dello spettacolo, o poco dopo, se devo dire qualcosa nella vita quotidiana mi ritrovo quasi naturalmente a parlare come faceva lui, con quella stessa sua lingua».
Dell’opera, oggi edita da Einaudi, Pirrotta s’innamorò prima ancora dell'uscita. «Mi fece conoscere il manoscritto Evelina Santangelo, scrittrice e traduttrice. Poi conobbi la famiglia di Rabito, in seguito ho ricevuto la cittadinanza onoraria di Chiaramonte Gulfi, e col tempo mi sono legato a questo personaggio, al suo mondo. Mi ha colpito il fatto che lui sentisse di dover raccontare la sua vita perché la sua vita era storia. Ho compreso molto di più della trincea della prima guerra mondiale dal racconto che ha fatto lui, col suo sforzo da semianalfabeta, che nei libri di storia. S’è impuntato, ha deciso di raccontare la propria vita, una vita molto picaresca, creando peraltro una nuova lingua e affrontando le cose con genio.
In "Terra matta" c’è tutto, c’è la guerra, c’è il racconto degli invasori e di chi subisce l’invasione, racconta delle zone del Nord Est italiano, e un certo modo di vivere la politica in Italia, in Sicilia, c’è il confronto quotidiano con il lavoro che manca, un tema tragico nel Sud Italia. Il suo coraggio, il fatto di non abbandonarsi al fatto di essere semianalfabeta mi ha fatto comprendere davvero tanto, che un semianalfabeta può diventare quasi uno storiografo, può raccontare. Ecco perché quando arrivano gli eserciti odiatori – e ci ricolleghiamo ai fascisti interpretati sul grande schermo – vogliono, per prima cosa, cancellare la memoria, perché così cancelli l’identità di un popolo».
La stessa curiosità che aveva Rabito, in fondo, aveva animato Pirrotta già quando aveva dodici o tredici anni e abitava a Partinico. «Ero considerato un visionario. Nessuno avrebbe scommesso una lira su di me. Mi prendevano per bugiardo perché inventavo storie, raccontavo ai vecchi che giocavano a scopone che la mia famiglia aveva un castello, che lì succedevano certe cose. In realtà il bugiardo è quello che nasconde di aver preso una cosa, o di aver rubato. A me piaceva raccontare, affascinare, e i vecchi stessi mi stavano ad ascoltare nonostante mi ritenessero un bugiardo».
Hanno avuto sicuramente un peso gli incontri con Danilo Dolci, in un bar che si chiamava «New York Burgers», in cui i due parlavano di poesia: «Ovviamente un ragazzo di tredici anni cosa poteva dire a Danilo Dolci, più volte candidato al Nobel? Però lui mi ascoltava, forse sorrideva pure. Ecco, probabilmente un certo tipo, un certo esempio, di gente che a Partinico aveva fatto certe cose, mi aveva conquistato».
Suo nonno passava le giornate a raccontargli storie, di cui poi Pirrotta è andato alla ricerca: «Petru Fudduni, Giufà, non so bene quale sia stata la molla, ma volevo capire, forse questa curiosità è stata la molla di tutto. Quando parlo di curiosità intendo che mia madre mi dava le 500 lire, poi 1.000, e io con quelle compravo i libri della Newton Compton, una vecchia collana che si chiamava “100 pagine 1.000 lire”, coi soldi della merenda ci compravo quelli. Conobbi così Gogol, di cui lessi "Il cappotto" e "Il naso", rimanendone colpito.
Ricordo che chiesi al mio professore d’italiano, il professore D’Angelo, di saperne di più e scoprii così «Le anime morte», sempre di Gogol, m’assummai i soldi e comprai quel libro. Da lì ho fatto un salto nella letteratura russa, per puro caso, che negli anni ho coltivato tantissimo». Ora la curiosità lo porterà di nuovo al cinema, con l’opera prima di Rosario Petix, "L’insabbiato", le cui riprese iniziano a novembre, e che racconta la vita del giornalista termitano assassinato dalla mafia, Cosimo Cristina, e poi ancora dietro la macchina da presa, con il secondo lavoro da regista, "Tre madri".
«È un film scritto da Giulia Andò, con la mia collaborazione – prosegue Pirrotta – che dovremmo girare il prossimo anno. Il cinema italiano è legato ai contributi, ai finanziamenti che sono prevalentemente pubblici, per cui dobbiamo aspettare prima di esserne certi. C’è un bellissimo cast di cui per adesso non posso fare nomi, ma sono obbligato al punto interrogativo perché finché non ci sarà una riforma vera, fatta da gente che fa questo mestiere, vivremo così. Per "Tre madri" mi dedicherò esclusivamente alla regia, è una cosa che ho imparato sul set di «Spaccaossa», in cui andavo a rivedere ogni dettaglio dopo lo stop. Così ero costretto a entrare e uscire dal personaggio di continuo».
A gennaio, Pirrotta debutterà poi al Teatro Stabile di Catania con "Purificazione", il suo nuovo testo, mentre le domeniche mattina di novembre riprenderà al Teatro Biondo di Palermo con le «Colazioni d’autore», che quest’anno saranno dedicate all’opera di Andrea Camilleri.
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