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Gianfilippo Ingrassia, un nome una garanzia: il ritratto dell'uomo che "curò" Palermo

Se c'è un uomo a cui Palermo deve dire grazie, questo è Ingrassia, quello dell'ospedale per intenderci: ecco le gesta del medico poeta che salvò la città dalla peste

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 4 maggio 2020

Un ritratto di Gianfilippo Ingrassia

Gianfilippo Ingrassia, un nome, un marchio una garanzia: così comincia questo racconto. Della vita Pippo, Fulì o Giannuzzu, dipende da come lo chiamavano al tempo, sappiamo poco ben volendo considerare. Sappiamo che lo zio Giovanni scriveva poesie e il fratello Nicolò era giureconsulto che cercato su wikipedia ha dato risultati del tipo: “iurisconsultus, da ius, iuris e consulere” il che mi ha portato immediatamente a chiudere wikipedia e dimenticarmi di questo Nicolò che tanto non ci interessa e si andasse a rompere le corna dove gli piace a lui.

In ogni caso, se fosse capitato a me, ipotizzando di dover crescere in un nucleo familiare composto da questi due begli spicchi, sarei portato a considerare che: a) Gianfilippo Ingrassia è scappato di casa in giovane età, b) Gianfilippo Ingrassia è scappato di casa appena ha potuto. Alla scappata di casa ci torniamo presto perché la scappata di casa c’è, come c’è sempre il prossimo di matrimonio di Ridge in Beautifull.
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Gianfilippo nasce nel 1510 a Regalbuto che fa rima con Racalmuto e forse non è un caso perché la prima è in provincia di Enna e la seconda è provincia di Agrigento ed è stata la città che ha dato i natali a due signori posati e tranquilli, ideologicamente parlando, che rispondono ai nomi di Leonardo Sciascia e Fra Diego la Matina. Si, certo, hai scoperto l’acqua calda, mi direte: è lo stesso Ingrassia che da il nome all’ospedale di Palermo.

Sin da quand’era ragazzino, e me lo immagino come quello che ti chiede: “perché il sole è caldo?” “perché c’è il fuoco” “e perché c’è il fuoco?” “e perché già mi hai fatto la testa tanta”, si distingue in studi classici: Omero, Virgilio e Cicerone, cosa che mi porta a domandarmi perché io, certe volte, ho ancora difficoltà a comprendere la trama Dylan Dog.

Il suo essere schiffarato lo portò a conoscere il greco, il latino -e già se la sta portando - e la filosofia Aristotelica e Platonica. Questo schiffaramento, che doveva essere uno schiffamento 2.0, lo portò addirittura a poetare in lingua italiana e latina tanto che, ancora carusazzo, entrò a far parte degli “Accademici accesi di Palermo” cosa che, da ex universitario, il sol nome mi fa paura. Nel 1532 giunge all’università di Padova (e qui c’è la scappata di casa!) e si laurea nel 1537, il che porta a pensare: a) Che Fulì non è andato fuori corso, b) che Fulì non stava vicino a un posto come Ballarò.

Dopo tanti studi e bla bla bla, forse innamorato di una ragazza che gli canta “Torna a Surriento”, si trasferisce a Napoli dove non avendo che fare, nel 1546, scopre quell’ossicino che ci provoca tanto sollievo quando lo grattiamo col cotton fioc e lo chiama “staffa” (forse il nome della sua ragazza). In seguito visto che le scoperte sul cranio, sulla conca nasale e i corpi cavernosi del pene (non voglio indagare su cosa siano), magari non gli hanno dato soddisfazioni, si stabilisce di nuovo in Sicilia dove gli viene data l’onorificenza di “lettore ordinario di medicina” - e qua me lo immagino come Bob Dylan che non si presenta a Stoccolma per il Nobel - e in più l’insegnamento, che fu il trampolino di lancio per la sua carriera medica. Un giorno il re di Spagna Filippo II, scoprendo che la parola “protomedico” gli piaceva assai perché gli faceva vibrare la lingua e sentiva solletico, decise di nominare protomedico Gianfilppo che, a sua volta, non avendo di nuovo che fare, inventa la medicina legale e la medicina pubblica. Poi arriva il 1575 e viene il bello.

Approda a Palermo una bella peste che, citando Abatantuono: “peste, iulenza, pezzi di missili che sbulazzano, schegge di granata, schegge di parmigiano”, porta morte e devastazione. Giannuzzo, perché dipende dove si trasferisce lo cambiano di nome, non si da per vinto e continua a studiare, studiare e studiare; si fosse chiamato Pregliasco e vissuto nel 2020, sicuramente, sarebbe stato su tutti i Tg.

Al grido di “peste, peste e contropeste” inizialmente ci fu lassismo, specie dai genovesi che c’erano a Palermo e che scambiando la parola peste con pesto misero a fare maccheroni. Il panico scatenato dal pestifero morbo fece scoppiare il caos: supermercati pieni, la gente che caricava farina a tinchité, depressione, violenze domestiche e chi più ne ha più ne metta. Ma il capolavoro assoluto lo combinò un’altra volta il credo religioso perché le chiese si riempirono come il Renzo Barbera il 29 maggio del 2004, per la storica promozione, e i parrini con le mani lorde e fituse spartivano più ostie di quante stigghiola si spartono oggi alla Vucciria.

Fulì Ingrassia capì che era il momento di scendere in campo e già nel 1575, e anche io ho fatto fatica a crederci, inizia a varare una serie di misure per contenere il morbo di cui i parrini di sopra non devono essere stati troppo contenti. Fa spostare i lazzaretti fuori città separando all’interno di essi i malati e quelli in via di guarigione, “barreggiamenti” nelle abitazioni (antenato di #iostoacasa) degli infetti, maggiore attenzione ai cibi e all’igiene dei vestiti (i morti si seppellivano nudi e gli abiti bruciati) e un primo progetto d’interramento del Papireto poiché attorno ad esso pare si fosse sviluppato un focolaio.

La situazione scappò così di mano che a un certo punto ogni medico cominciò a dire la sua: Pietro Parisi, che era allievo di Ingrassia diceva che la categoria più a rischio erano i nobili perché essendo più raffinati erano anche più delicati, Fortunato Fedeli, collega di studi di Ingrassia, invece, diceva che la categoria più a rischio erano i poveri perché non si lavavano. Ma la più belle di tutte, e qui ci colpa qualche grande figghio di sua madre perché la madre dei cretini è sempre gravida, fu la diffusione della notizia fake che i cani erano causa di contagio e, mi duole pure a dirlo, fu imposto di andare a gettare i fedeli amici all’interno di fosse di raccoglimento che erano una fuori Porta Carini, una fuori Porta Nuova e una fuori Porta Termini (quelli dei nobili no perché erano più puliti e bastò metterli in quarantena.

Alla fine il nostro Gianfilippo Ingrassia, ancora prima di Santa Rosalia, riuscì a contenere la terribile peste dove tanti altri medici avevano fallito, diventando una sorta di eroe; e, per non farsi mancare niente, nel 1576, scrisse un leggerissimo e piacevolissimo manuale del morbo che chiamò “informazione del pestifero et contagioso morbo.” Oggi, come già accennato, l’ospedale sito in corso Calatafimi porta ancora fieramente il suo nome; anche se molti di noi (il primo io) non sapevano chi schifio fosse stu Gianfilippo Ingrassia.
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