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Il caso dei sarcofagi di Pizzo Cannita: il tesoro (sepolto) delle sacerdotesse fenicie

Come furono scoperti i reperti archeologici che custodivano un piccolo tesoro. Unici esemplari di questa tipologia monumentale rinvenuti fino ad oggi in Sicilia

Marco Giammona
Docente, ricercatore e saggista
  • 26 settembre 2022

I sarcofagi antropoidi di Pizzo Cannita (Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”)

Pizzo Cannita è un piccolo e aspro colle situato al margine sud-orientale della Conca d’oro nelle vicinanze del fiume Eleuterio. È il primo insediamento che s’incontra lungo il percorso del fiume e, probabilmente, dovette far parte del sistema di abitati indigeni sviluppatisi già intorno al VI-IV secolo a.C. lungo e a difesa delle sue acque.

La conoscenza archeologica della zona ebbe inizio in seguito al rinvenimento della necropoli, approssimativamente localizzata tra la Montagnola Villa e le ultime case della frazione di Portella di Mare, con il centro ubicato sul colle.

La necropoli venne alla ribalta quando alcuni cavatori di pietra scoprirono, nel 1695 e nel 1725, due sarcofagi antropoidi di marmo, che potrebbero appartenere a sacerdotesse addette al culto di Cronos, unici esemplari di questa tipologia monumentale prettamente fenicia rinvenuti sino ad oggi in Sicilia.

Le tombe presentavano un rito misto, poiché, oltre all’inumazione entro sarcofagi antropoidi, furono ritrovati anche una cremazione secondaria dentro un’urna cineraria, e un altro sarcofago monolitico ricavato nello stesso banco roccioso e coperto da grandi tegole.
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Le prime notizie sulla scoperta del primo sarcofago sono contenute nella "Historia cronologica delli Signori Vicerè di Sicilia" di Vincenzo Auria nel 1697.

Da lì si apprende che il 20 settembre 1695 alla Cannita, per pura casualità, alcuni cavatori di pietra scoprirono una tomba a camera, chiusa da una pietra quadrangolare. Una volta rimossa quella lastra, tra i diversi strati di stretti blocchi rettangolari, venne alla luce un grande sarcofago in una fossa profonda, inoltre l’importanza della scoperta aumentò quando ci si accorse del ricco corredo funerario che la cripta comprendeva composto da: lampade, piatti, ceramiche di varie forme, parecchie monete, reperti in vetro, alabastro, un assortimento di oggetti in bronzo, una fascia d’oro, anelli, perle di corallo ed altri oggetti preziosi.

Il prezioso tesoro ritrovato scomparse fin da subito, mentre del sarcofago si recuperò solo il coperchio su cui era scolpita a rilievo una figura femminile con una fascia intorno alla testa e un lungo abito liscio con brevi maniche a pieghe, le braccia distese e accostate al corpo.

Pur trattandosi di una tipologia tipicamente orientale, la raffigurazione del volto rivela una profonda influenza dell’arte classica, permettendone una datazione entro la prima metà del V sec.a.C. Il coperchio del sarcofago fu consegnato al Duca di Uzeda, allora Vicerè di Sicilia, il quale, quando partì dalla Sicilia per la Spagna lo donò al Principe di Niscemi, Giuseppe Valguarnera, allora Pretore di Palermo.

Le notizie inerenti al ritrovamento del secondo sarcofago si ricavano dalla relazione manoscritta dell’abate cassinese Michele Del Giudice. Nel medesimo manoscritto si accenna anche alla scoperta di un terzo sarcofago antropoide, di cui Jacques Philippe D'Orville (filologo e storico olandese) riporta l’illustrazione, e di altre tombe a camera contenenti sarcofagi (ad oggi non pervenute).

Il sarcofago fu scoperto anch’esso per caso il 23 Luglio 1725 da alcuni cavatori di pietra, che sprofondarono in una camera sotterranea localizzata tra la zona di Fondovilla e quella denominata "zotta dei morti".

Una volta discesi cominciarono a farsi largo tra la terra fino a quando si dovettero fermare di fronte un gran masso di travertino che chiudeva l’apertura di una camera sepolcrale. Una volta fatta a pezzi, entrando, trovarono un grande sarcofago che però gli fu impossibile aprire a causa del peso eccessivo.

In considerazione del presunto "tesoro" ritrovato, decisero di informare dell’accaduto il Principe di Cattolica e Signore di Misilmeri, Don Francesco Bonanno-Del Bosco, probabilmente al fine per richiederne un compenso in denaro. Mostrando curiosità ed interesse, il Principe decise di inviare l’Abbate Bandiera con il cassiere di Casa Cattolica Giulio Rumbolo a verificare quanto trovato.

Quando venne aperto, il sarcofago al suo interno conteneva una sorta di corredo funerario costituito da amuleti d’avorio, frammenti metallici e un vaso di vernice nera, e forse addirittura anche i resti della deposizione. Diverso lo stile con cui è realizzata l’immagine di donna riprodotta sul coperchio di questo sarcofago, con il capo realizzato a tutto tondo e incorniciato da una capigliatura che ricade sui lati all’altezza delle orecchie.

Il viso è largo e pronunciato nella bocca e nel mento. Il corpo è coperto da una veste panneggiata, da cui escono i piedi poggianti su alte suole, mostra i seni sporgenti, il braccio destro steso lungo il fianco e il sinistro leggermente flesso a sostenere nella mano un alabastro.

Sul viso della donna, inoltre, sono presenti dei fori, che permettono di avanzare l'ipotesi secondo cui il coperchio che inizialmente, insieme alla cassa, fu trasportato presso l’orto botanico di Misilmeri, fu presumibilmente utilizzato per decorare una fontana.

Dopo l’Unità d’Italia, fondatosi a Palermo nel 1866, il Museo Nazionale (oggi Museo Archeologico Regionale A. Salinas) i due sarcofagi vennero requisiti dallo Stato e restaurati, per poi entrambi essere esposti in una stanza del piano terra del Museo.

Ad oggi le presunte "sacerdotesse" di Pizzo Cannita rappresentano un vero e proprio unicum di sarcofagi antropoidi utilizzati nei rituali funerali del mondo fenicio in Sicilia.
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