L'insolito ponte tra Palermo e il Giappone: perché celebrano la "Festa della Minkia"
Lo diciamo continuamente ma i nostri "cugini" giapponesi sono stranamente molto più rilassati, tant’è che gli hanno pure dedicato una festa. Quale

La "festa del pene d'acciaio" in Giappone
Mi chiamo Gianluca, ho trentanove anni e mi sono appena ricordato che "Venus" di Mazinga sparava missili fotonici dalle minne.
È inutile, per uno nato Palermo negli anni ’80 il rapporto con il Sol levante è, e resterà sempre, una relazione complicata. Saru, arubaito, sushi, kaki, puri, kurò, kari, troppe parole, troppi suoni equivoci, che ci travolgono confondendoci le idee.
Se in un ristorante giapponese, per esempio, dici "kago sushi" ti passano il cestino del sushi, se lo dici a Palermo, forse, garbatamente, ti consigliano di cambiare dieta.
È vecchia la questione, oserei dire arcaica, dai tempi del mitico Bruce Lee che veniva puntualmente chiamato Bruciulé, che poi manco giappunisi era.
Tra i primi a notarlo Alamia e Sparandeo, quando nell’estate degli anni ’90, ne “La Partita”, cantavano la formazione della nazionale di calcio giapponese: Samurai, Tammuttai, Tacciuncai, Iocupocomaiocu, Orinosopraimurisopraitettiedunnegghié, Cinpinciu, Sciancacé, Susuchi e Cusisucalovamatina. Numero 13 Cacapoco, numero 14 Messainmoto. Allenatore: Isatiacuracaticachi”.
Indimenticabili! Poi, ovviamente, la cosa scappò di mano e diventò una gara, nelle scuole, nelle sale da barba, al posto di lavoro, a chi la sparava più grossa.
“Famoso tuffatore giapponese? Cufucamammuttò. Famoso benzinaio giapponese? Atancatainchitu”. E via discorrendo….
Poi, come ci sono similitudini, ci sono pure i contrari. Il “suka” uno di questi casi. Se da noi esprime diniego -es. “me le presti 50 euro?” “Suka!”-, in Asia invece esprime consenso, apprezzamento, come a dire “va bene” oppure “mi piace”.
C’è però una parola su tutte, un avverbio, un intercalare, un suono che ormai per i palermitani svolge il ruolo di punteggiatura, sia essa la virgola o il punto esclamativo. Sto parlando della parla “minchia, forse la parola siciliana più famosa al mondo.
Ecco, ancora una volta quello con il Sol levante è un legame indissolubile, anzi un ponte che collega le due culture, poiché se noi tendiamo ad averla sempre in bocca, negandone di contro la fisicità con lombrosiano disprezzo, e rappresentandola al massimo in forma artistica con due cerchi uniti ad un corpo ellittico maggiore, i cugini giapponesi in questo sono stranamente molto più rilassati, tant’è che alla “minchia” gli hanno pure dedicato perfino una importantissima festa. Mi spiego.
Se a Palermo dici una festa della minkia intendi una festa mal riuscita, o, quantomeno, una festa organizzata senza pretese, una festa babba insomma. Se a Kawasaki dici la Festa della Minkia, intendi invece una delle feste più importanti dell’intero Giappone.
Tuttavia, prima di addentrarci nel discorso, vi fornisco tre proverbi giapponesi che non vi serviranno a nulla ma che potrete sfoggiare la prossima volta che sarete ubriachi.
1) Anzuru yori umu ga yasushi - partorire un bambino è più facile che preoccuparsene.
2) Deru kui wa utareru - il paletto che sporge viene martellato a terra.
3) Minna ni oppai wo misetekureru - mostra il petto alle persone.
A scanso di equivoci, “minna” in giapponese significa “a tutti”, mentre è “oppai” a significare seno. Detto questo, torniamo al discorso principale perché dalle nostre parti quando si parla di minne è sempre cosa delicata.
Ordunque, per la serie chiù longa è la pinsata chiù grossa è la minchiata, la suddetta festa della minkia i giapponesi la chiamano in realtà “Kanamura Matsuri” e letteralmente significa Festa del pene d’acciaio.
Si tratta di una celebrazione Shintoista che risale al 1603 e proviene da una leggenda. Tale leggenda narra, appunto, di un demone dai denti affilatissimi che un giorno si impossessa di un’avvenente ragazza mentre sta passeggiando tranquilla, entrandole proprio da lì.
La tragedia non sta tanto in questo, quanto nel fatto che da quel momento alla patatracca della fanciulla spunteranno, anche a lei, dei denti affilatissimi e che il suo unico scopo nella vita sarà quello di evirare tutti i maschi del Giappone.
In men che non dica, subito dopo aver divorato il “matsuri” del suo promesso sposo, inizia quindi fare mambassa di tutti gli altri matsuri che gli capitano a tiro, scatenando il terrore generale (è da qui la formula “all you can eat”).
La situazione è tragica, anzi di più, “penosa”. Sembra che tutto debba andare per il peggio, quando dal nulla spunta un eroico fabbro che costruisce un grosso pene d’acciaio per cogliere in "fallo" la fanciulla nel "peccato di gola".
Questa volta l’ingordigia le sarà fatale, e nel morso finirà per frantumarsi tutti i denti. Il demone, sconfitto, abbandonerà finalmente il corpo della ragazza e i matsuri dei giapponesi saranno tratti in salvo e nessuno gli romperà più la “minkia”.
E niente, tutto è pene quel che finisce pene… forse. つづく.
È inutile, per uno nato Palermo negli anni ’80 il rapporto con il Sol levante è, e resterà sempre, una relazione complicata. Saru, arubaito, sushi, kaki, puri, kurò, kari, troppe parole, troppi suoni equivoci, che ci travolgono confondendoci le idee.
Se in un ristorante giapponese, per esempio, dici "kago sushi" ti passano il cestino del sushi, se lo dici a Palermo, forse, garbatamente, ti consigliano di cambiare dieta.
È vecchia la questione, oserei dire arcaica, dai tempi del mitico Bruce Lee che veniva puntualmente chiamato Bruciulé, che poi manco giappunisi era.
Tra i primi a notarlo Alamia e Sparandeo, quando nell’estate degli anni ’90, ne “La Partita”, cantavano la formazione della nazionale di calcio giapponese: Samurai, Tammuttai, Tacciuncai, Iocupocomaiocu, Orinosopraimurisopraitettiedunnegghié, Cinpinciu, Sciancacé, Susuchi e Cusisucalovamatina. Numero 13 Cacapoco, numero 14 Messainmoto. Allenatore: Isatiacuracaticachi”.
Indimenticabili! Poi, ovviamente, la cosa scappò di mano e diventò una gara, nelle scuole, nelle sale da barba, al posto di lavoro, a chi la sparava più grossa.
“Famoso tuffatore giapponese? Cufucamammuttò. Famoso benzinaio giapponese? Atancatainchitu”. E via discorrendo….
Poi, come ci sono similitudini, ci sono pure i contrari. Il “suka” uno di questi casi. Se da noi esprime diniego -es. “me le presti 50 euro?” “Suka!”-, in Asia invece esprime consenso, apprezzamento, come a dire “va bene” oppure “mi piace”.
C’è però una parola su tutte, un avverbio, un intercalare, un suono che ormai per i palermitani svolge il ruolo di punteggiatura, sia essa la virgola o il punto esclamativo. Sto parlando della parla “minchia, forse la parola siciliana più famosa al mondo.
Ecco, ancora una volta quello con il Sol levante è un legame indissolubile, anzi un ponte che collega le due culture, poiché se noi tendiamo ad averla sempre in bocca, negandone di contro la fisicità con lombrosiano disprezzo, e rappresentandola al massimo in forma artistica con due cerchi uniti ad un corpo ellittico maggiore, i cugini giapponesi in questo sono stranamente molto più rilassati, tant’è che alla “minchia” gli hanno pure dedicato perfino una importantissima festa. Mi spiego.
Se a Palermo dici una festa della minkia intendi una festa mal riuscita, o, quantomeno, una festa organizzata senza pretese, una festa babba insomma. Se a Kawasaki dici la Festa della Minkia, intendi invece una delle feste più importanti dell’intero Giappone.
Tuttavia, prima di addentrarci nel discorso, vi fornisco tre proverbi giapponesi che non vi serviranno a nulla ma che potrete sfoggiare la prossima volta che sarete ubriachi.
1) Anzuru yori umu ga yasushi - partorire un bambino è più facile che preoccuparsene.
2) Deru kui wa utareru - il paletto che sporge viene martellato a terra.
3) Minna ni oppai wo misetekureru - mostra il petto alle persone.
A scanso di equivoci, “minna” in giapponese significa “a tutti”, mentre è “oppai” a significare seno. Detto questo, torniamo al discorso principale perché dalle nostre parti quando si parla di minne è sempre cosa delicata.
Ordunque, per la serie chiù longa è la pinsata chiù grossa è la minchiata, la suddetta festa della minkia i giapponesi la chiamano in realtà “Kanamura Matsuri” e letteralmente significa Festa del pene d’acciaio.
Si tratta di una celebrazione Shintoista che risale al 1603 e proviene da una leggenda. Tale leggenda narra, appunto, di un demone dai denti affilatissimi che un giorno si impossessa di un’avvenente ragazza mentre sta passeggiando tranquilla, entrandole proprio da lì.
La tragedia non sta tanto in questo, quanto nel fatto che da quel momento alla patatracca della fanciulla spunteranno, anche a lei, dei denti affilatissimi e che il suo unico scopo nella vita sarà quello di evirare tutti i maschi del Giappone.
In men che non dica, subito dopo aver divorato il “matsuri” del suo promesso sposo, inizia quindi fare mambassa di tutti gli altri matsuri che gli capitano a tiro, scatenando il terrore generale (è da qui la formula “all you can eat”).
La situazione è tragica, anzi di più, “penosa”. Sembra che tutto debba andare per il peggio, quando dal nulla spunta un eroico fabbro che costruisce un grosso pene d’acciaio per cogliere in "fallo" la fanciulla nel "peccato di gola".
Questa volta l’ingordigia le sarà fatale, e nel morso finirà per frantumarsi tutti i denti. Il demone, sconfitto, abbandonerà finalmente il corpo della ragazza e i matsuri dei giapponesi saranno tratti in salvo e nessuno gli romperà più la “minkia”.
E niente, tutto è pene quel che finisce pene… forse. つづく.
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