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La Sicilia dei siti archeologici (abbandonati): tra rovine nascoste e memorie sotterranee

La Sicilia a volte dimentica ciò che la rappresenta di più: la sua stratificazione, la sua storia infinita, il suo passato glorioso. Una piccola guida ai luoghi dimenticati

Federica Dolce
Avvocato e scrittrice
  • 13 giugno 2025

Necropoli di Pantalica (foto C. Sgandurra)

C’è una Sicilia che non fa rumore. Una Sicilia che dorme sotto strati di terra e polvere, tra erbe selvatiche e muretti a secco. È la Sicilia dei siti archeologici abbandonati, delle necropoli dimenticate, dei templi greci che si sgretolano nel silenzio, come se il tempo avesse deciso di esercitare il suo diritto all’oblio.

Eppure, proprio lì, nei luoghi che nessuno visita e che nessuna guida turistica osa raccontare, pulsa una verità profonda e tutta siciliana: il valore di ciò che non serve più, il potere dell’inutile, la bellezza dell’ozio. La Sicilia a volte dimentica ciò che la rappresenta di più: la sua stratificazione, la sua storia infinita, il suo passato glorioso.

Ma lo fa non per negligenza o ignoranza. Lo fa per un riflesso culturale antico, per quella filosofia del tempo lento che ha reso i siciliani poeti dell’attesa, maestri del "poi si vedrà".

Qui si dimentica non per perdere, ma per lasciare spazio. Spazio alla natura, al silenzio, alla contemplazione. È un’oblio creativo, che somiglia più a una sospensione che a un vero abbandono. Esistono dei veri e propri templi senza nome. Pochi sanno che a non molti chilometri dalla Valle dei Templi, c’è una piccola area sacra — non segnalata, non curata — dove le colonne doriche resistono al vento solo perché le radici degli ulivi le tengono in piedi.

Oppure le necropoli rupestri di Pantalica, talmente vaste e silenziose da sembrare scolpite più dal pensiero che dallo scalpello. C’è poi il teatro greco di Tindari, con il suo palcoscenico sul mare, che ogni tanto si sveglia per un concerto estivo, poi ricade nel suo torpore di pietra. Ma cerchiamo di capire questa psicologia dell’abbandono.

Perché non li valorizziamo? Perché li lasciamo lì, ai cinghiali e ai rovi? La risposta non è semplice, ma forse va cercata più nel cuore che nel portafoglio. In Sicilia il passato non è mai stato solo un’eredità: è un peso, una responsabilità, una voce che non tace.

Ogni pietra antica ci guarda e ci giudica. Meglio allora dimenticare, come suggeriva Pirandello, che amava scavare nelle maschere per dimenticare il volto. O come fa il popolo siciliano, che secondo Sciascia è capace di vivere con una rassegnazione attiva, una malinconia fertile.

In una vera e propria sociologia del disinteresse c’è poi una spiegazione più terrena: l’abbandono è anche frutto di uno scollamento tra comunità e territorio. In un tempo in cui il presente divora il futuro e disprezza il passato, questi luoghi sembrano troppo lenti per essere utili, troppo fragili per essere redditizi.

Ma proprio in questo risiede la loro forza: ci insegnano che non tutto deve servire, che esiste un valore dell’inutile che solo la Sicilia, con la sua solarità fatalista, riesce a comprendere. In un’accezione della Filosofia dell’ozio archeologico “Il non fare è un fare superiore”, diceva Epicuro, che non a caso trovò seguaci proprio qui, dove la vita si misura in gesti piccoli e solenni.

L’archeologia abbandonata diventa così metafora del tempo libero, dell’otium latino, di quel modo tutto mediterraneo di concepire l’esistenza come contemplazione e non solo come produzione.

Un sito abbandonato è un invito a rallentare, a fermarsi, a sentire. Un luogo dove la storia non si mostra ma si sussurra, e dove il turista diventa pellegrino del tempo.

E se fosse proprio in questi luoghi dimenticati che la Sicilia potesse ritrovare sé stessa? Non nei musei iper-tecnologici, non nei circuiti turistici affollati, ma nelle pietre calde di sole, nei sentieri senza cartelli, nelle cave di tufo dove il vento parla greco. Forse il segreto non è “valorizzare”, ma rivalutare: ritrovare il valore di ciò che non vuole essere valorizzato, ma semplicemente vissuto. Anche solo per un picnic tra le rovine, un tramonto tra le colonne, un pensiero tra i papaveri.

La Sicilia è una bellezza nascosta (ma non perduta) perché è un’archeologia vivente: non custodisce il passato, ci vive dentro. E se dimentica, è perché ha troppa memoria.

Non c’è nostalgia, ma una forma speciale di accettazione. I suoi siti abbandonati non sono solo monumenti, ma specchi: riflettono il nostro rapporto con il tempo, con la bellezza, con la cura.

E ci ricordano che, a volte, per custodire davvero qualcosa, bisogna prima imparare a perderlo. In fondo, essere siciliani è questo: saper sorridere tra le rovine, trovare poesia nel silenzio, e camminare tra la storia con passo leggero. Perché in Sicilia, anche l’abbandono sa essere un’opera d’arte.
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