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Lasciata dal marito, simulava poteri magici: la majara che in Sicilia sfuggì all’Inquisizione

Se non colta era scaltra: organizzò una piccola attività trovando la complicità di altre donne con le quali architettavano "fatture e jatture, guarigioni e malanni"

Giovanna Gebbia
Esperta di turismo relazionale
  • 23 marzo 2023

Quando da Napoli Pellegrina Vitello arrivò a Messina al seguito del marito Nardò, mastro setaiolo in cerca di nuovi affari e una vita migliore, due cose non avrebbe mai potuto immaginare.

La prima che il marito l'avrebbe abbandonata per un'altra donna e la seconda, la peggiore, che venisse perseguitata e condannata per stregoneria come Majara.

Siamo nella Sicilia imperiale di Carlo V, ovvero, nella piena attività di quel tribunale della Santa inquisizione che ispirò Sciascia e che pare in Sicilia abbiamo condannato 1500 donne - numeri che veri o presunti fanno una certa impressione - per stregoneria, adulterio o altri misfatti.

Le cronache del tempo ci raccontano che la povera Pellegrina proprio a causa dell'abbandono del consorte si dovette riorganizzare in qualche modo, vista la condizione di indigenza nella quale era rimasta e non brillando di qualche abilità come non essendo portata per il commercio del proprio corpo.

Dalla occasionale conoscenza con alcune donne del mestiere, intuì che una pratica danarosa che le poteva calzare a pennello ed essere alla sua portata senza particolare impegno era la magaria e per sbarcare il lunario le venne l’idea di "reinventarsi" Majara.
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Se non colta sicuramente scaltra: organizzò una piccola attività trovando la complicità di altrettante donne con le quali architettavano "fatture e jatture, guarigioni e malanni" simulando poteri magici.

E siccome il diavolo si dimentica sempre a fare i coperchi, e lei non fu nemmeno tanto accorta e discreta, fu scoperta e accusata da cinque “pie donne” anziane che la denunciarono di praticare la magarìa, quindi di essere una Majara e di avere preparato sortilegi e fatture, invocato il maligno con altri demoni in condizioni di trance, di essere una veggente in grado di predire il futuro o venire a conoscenza di eventi non ancora accaduti, utilizzare altarini, amuleti e oggetti veicolo di poteri magici.

Pellegrina si unì a quella schiera di praticanti che agivano nell'ombra del mistero, recitavano cantilene incomprensibili, praticavano manipolazioni e riti per la cui esecuzione si rivelavano ai committenti donne dai poteri occulti abili nel "sortilegio" o esperte di esoterismo, che toglievano le iettature o le infliggevano su commissione.

Fu processata nel maggio del 1555 dall’Inquisizione del tribunale di Messina - ma scampata in maniera fortuita alla punizione del rogo – e il processo “super magariam” ebbe inizio il 3 aprile e durò 42 giorni, tra testimonianze e indagini contemplando fra le altre accuse quella di aver dato un pane magico ad un uomo incriminato così che non potesse testimoniare.

Ad aggravare la sua posizione, addirittura, fu un amico setaiolo del marito che, forse, per un mancato rapporto sessuale del quale era rimasto, ovviamente, insoddisfatto la denunciò come ritorsione.

I giudici decideranno di sottoporre l’imputata alla tortura della corda senza ottenere una piena confessione dell’imputata che, nonostante le sofferenze, continuò a dichiararsi innocente, e per sentenza dell’Inquisitore Sebastian e del Vicario Generale di Messina Bartolomeo Cantella, verrà sottoposta al solenne autodafé e quindi condannata al rogo.

Le testimonianze raccolte dai giudici, però, si rivelarono contrastanti e la condanna al rogo venne commutata nel supplizio delle frustate inflitte pubblicamente in processione lungo le strade di Messina, con un cero in mano e una mitria in testa, come monito esemplare per chi praticasse l’opera della magaria.

Ma come lavoravano le presunte streghe?

Intanto erano quasi sempre di estrazione sociale popolare, andavano avvolte in stracci o in abbigliamento folcloristico e si presentavano ai committenti corredate di amuleti, pozioni, fantocci pieni di spilli, oggetti simbolo in cera, vetri e specchi, candele, ampolle di liquidi strani o olio, stracci annodati, talismani di vari materiali.

Tracciavano anche segni su pezzi di carta o sulle mura degli stabili, non proprio in vista per non essere riconosciuti, con riferimento al Pentacolo, Stella a cinque punte, il segno di Salomone o il Tetragrammaton.

Le nenie rituali parlavano una lingua strana e incomprensibile, perché spesso mescolavano termini di provenienza diversa: ebraici, spagnoli e latini che si univano a vocalizzi e deliri per attivare o sortire l'effetto desiderato, impressionando gli astanti.

Le Majare venivano cercate per filtri d’amore, veleni, cure mediche, spesso per uso abortivo, nonché per infliggere malefici.
Ovviamente l’Inquisizione trovava terreno fertile per il proprio ufficio, considerando tali pratiche demoniache e quindi perseguibili con le peggiori torture e esecuzioni, specie sotto il regno di Carlo V che fu durissimo nella repressione.

A proposito della storia di Pellegrina Vitello sembra che sia stata questa una delle fonti che ispirarono Leonardo Sciascia per i suoi due famosi romanzi: Morte dell’Inquisitore e La Strega e il Capitano.
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