STORIA E TRADIZIONI
Le (macabre) congiure nella Palermo antica: il conte decapitato e la fine dei Chiaramonte
Ultimo esponente di una delle famiglie più illustri della Sicilia, la sua morte non fu soltanto la conclusione di una vicenda personale ma la chiusura di un’epoca

C’era fermento, un senso d’attesa sospesa, forse anche un po’ di paura. Davanti al maestoso Palazzo Chiaramonte, conosciuto come lo Steri, si stava per consumare un’esecuzione pubblica che avrebbe segnato la fine di un’intera stagione politica.
Andrea Chiaramonte, conte di Modica, barone di Caccamo, Bivona, Misilmeri e Sutera, ammiraglio e vicario generale del Regno di Trinacria, stava per essere decapitato.
Ultimo esponente di una delle famiglie più illustri e potenti della Sicilia, la sua morte non fu soltanto la conclusione di una vicenda personale ma anche la chiusura di un’epoca.
Andrea era l’erede di un casato che aveva lasciato un segno profondo nella storia e nel paesaggio dell’isola. I Chiaramonte avevano fatto costruire chiese, conventi, magnifiche roccaforti come il castello di Mussomeli, abbarbicato alla roccia e ancora oggi visibile, oppure ampliato quello di Misilmeri, e dominavano un vasto sistema di feudi e titoli.
Tra tutte le opere che simboleggiavano il loro potere, il palazzo costruito a Palermo da Manfredi Chiaramonte a partire dal 1307, a due passi dal mare, rappresentava l’emblema più forte della grandezza familiare. Quel palazzo fortificato, lo Steri, sarebbe divenuto il teatro finale della loro parabola storica.
Il nome di Andrea è oggi noto soprattutto agli studiosi, ma all’epoca evocava timore e rispetto. La sua figura, tragica e orgogliosa, racchiude il tramonto della nobiltà feudale siciliana, la fine di un mondo aristocratico che aveva tentato per decenni di opporsi all’accentramento del potere monarchico catalano-aragonese.
La sua vicenda si inserisce in un contesto dominato da guerre civili, rivalità baronali, mediazioni papali e trattative dinastiche, in un’isola dove le alleanze duravano il tempo di una stagione e i tradimenti non lasciavano spazio al perdono.
Nel marzo del 1391, alla morte di Manfredi (III) Chiaramonte, Andrea ne assunse senza difficoltà titoli e responsabilità, diventando conte di Modica, signore di Malta, vicario del regno e comandante supremo della flotta. Tuttavia, il suo ingresso al potere lascia ancora aperti interrogativi sulla sua legittima nascita.
Nonostante le cronache lo indichino come figlio di Manfredi, il testamento di quest’ultimo, redatto nel settembre dell’anno precedente, non lo nomina affatto. In esso si ricordano solo le cinque figlie nate da Eufemia Ventimiglia, la seconda moglie del conte, e si prevede l’eventualità della nascita di un figlio postumo, ma nessuna traccia di Andrea.
Alcuni storici hanno proposto che fosse figlio del fratello di Manfredi, Matteo, morto nel 1377, forse riconosciuto tardi o considerato figlio naturale. Ma la questione genealogica, pur suggestiva, resta senza risposte certe. Di fatto, alla morte di Manfredi, Andrea fu accettato senza contestazioni e assunse la guida del partito chiaramontano con piena autorità.
Già da anni Andrea si muoveva con disinvoltura sulla scena politica. Intrattenne contatti diplomatici con Martino di Montblanc, fratello del re d’Aragona, che aspirava a restaurare il dominio aragonese in Sicilia. Gli furono offerti onori, terre e perfino un matrimonio con una nipote del duca. Ma Andrea rifiutò, scegliendo di restare fedele a un’idea di autonomia isolana.
Il 10 luglio 1391 fu tra i promotori dell’assemblea tenutasi nella chiesa di San Pietro, presso Castronovo, in cui i maggiori baroni dell’isola, sia di parte latina che catalana, giurarono un’alleanza contro gli Aragonesi.
L’iniziativa fu sostenuta da papa Bonifacio IX, che temeva un passaggio della Sicilia sotto l’obbedienza del papa avignonese Clemente VII. Ma i giuramenti medievali raramente reggevano alla prova del tempo. I baroni che avevano stretto quel patto iniziarono a trattare segretamente con il duca Martino.
Andrea, consapevole dei rischi, mantenne la sua posizione ma, forse per prudenza, inviò ambasciatori a Barcellona e poi li fece tornare, segno di incertezza o tentativo di guadagnare tempo. Quando nel marzo 1392 Martino sbarcò a Favignana con suo figlio Martino il Giovane e la regina Maria, figlia dell’ultimo re di Trinacria, Andrea fu tra i pochi a rifiutarsi di rendergli omaggio.
Martino lo considerava da tempo colpevole di alto tradimento, ritenendolo responsabile di aver sottratto numerose città demaniali alla Corona durante quarant’anni di conflitti. Quando il duca lo convocò a Mazara per prestare servizio militare, Andrea chiese un salvacondotto, che gli fu negato. Intanto, l’avanzata aragonese procedeva.
Palermo fu presto cinta d’assedio da terra e da mare. Andrea, con alcuni fedeli e l’arcivescovo di Palermo, si chiuse nello Steri, dove resistette per oltre un mese. Ma la rese era inevitabile. Il 15 maggio 1392 fu firmato un accordo di pace che prevedeva il perdono per lui e per le città rimaste a lui fedeli.
Ma appena Andrea due giorni dopo, recatosi nel campo aragonese per perorare la restituzione dei suoi feudi, fu arrestato con l'accusa, mai provata, di aver organizzato una sommossa armata contro il duca. Martino non esitò: fece arrestare anche parenti, amici e sostenitori di Andrea, compreso il fratello (forse Enrico) e i fedeli alleati Manfredi e Giacomo d’Alagona.
Il processo fu veloce e la sentenza emessa dal giudice Guglielmo Raimondo Moncada si concluse con la condanna da morte, eseguita il 1º giugno 1392. La decapitazione avvenne pubblicamente, dinanzi al palazzo Steri, che fino a poche settimane prima era stato il centro del potere chiaramontano.
Dopo il saccheggio, il duca ne fece la propria residenza. La morte di Andrea Chiaramonte sancì la definitiva sconfitta della resistenza baronale in Sicilia. I suoi vasti possedimenti furono spartiti tra i sostenitori di Martino d’Aragona: la contea di Modica fu assegnata al catalano Bernardo Cabrera, mentre quelle di Chiaramonte e Caccamo passarono a Galdo Queralt.
Persino il giudice Guglielmo Raimondo Moncada, che aveva pronunciato la sentenza di morte, fu ricompensato con diversi beni confiscati, tra cui la proprietà del castello di Misilmeri. Quanto alla sorte della vedova, Isabella, le fonti riferiscono che, dopo l’esecuzione del marito, si ritirò in un convento ad Agrigento, presumibilmente in clausura, secondo un destino comune a molte donne nobili rimaste vedove in circostanze politiche traumatiche.
Il figlio Giovanni, ancora in giovane età, fu inizialmente affidato al capitano di Catania e poi a parenti fedeli alla Corona aragonese, probabilmente per impedirne l’ascesa politica o l’utilizzo come simbolo di una futura riscossa chiaramontana. Così si concluse la parabola della più potente famiglia feudale della Sicilia trecentesca.
La vicenda di Andrea Chiaramonte, figura ambigua ma determinata, incerta nelle origini e netta nella fine, segna il passaggio definitivo da un sistema baronale autonomista e frammentario al consolidamento della monarchia aragonese nell’isola, preludio alla lunga stagione della dominazione spagnola.
Il suo nome sopravvive ancora nei muri dello Steri e tra le ombre delle grandi sale di Mussomeli, ma la sua eredità politica si dissolse rapidamente, come la testa che rotolò sul selciato di Piazza Marina.
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