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"Lo streaming è un suicidio", il Pirandello di Agrigento inventa un modo per ripartire

Il presidente della Fondazione, Gaetano Aronica, parla del rilancio post-Coronavirus: dobbiamo riuscire a lanciare in campo idee nuove in sintonia con un mondo nuovo

  • 7 maggio 2020

Gaetano Aronica, presidente del Teatro Pirandello di Agrigento

La generica appartenenza all’area della Sicilia Occidentale pare non sia il solo punto di contatto fra Palermo e Agrigento. A unirle, anche, queste due città così diverse, è stato anche il celebre architetto Giovan Battista Filippo Basile.

Il 10 settembre 1864 il sindaco di Palermo Antonio Starabba, marchese di Rudinì, bandì un concorso per «provvedere alla mancanza di un teatro che stesse in rapporto alla cresciuta civiltà ed a’ bisogni della popolazione».

Solo quattro anni dopo, il 4 settembre 1868, la giuria formulò una graduatoria, conferendo il primo premio al Basile. La prima pietra del Teatro Massimo fu posata il 12 gennaio 1875, e l’opera venne ultimata solo molti anni dopo dal figlio Ernesto, straordinario esponente del Liberty palermitano, succeduto al padre che nel 1891 era venuto a mancare. Ma questa è un’altra storia.

Andiamo indietro nel tempo, ad Agrigento, dove nel 1863 la giunta municipale aveva deliberato la costruzione del teatro, i cui lavori iniziarono nel 1870. Ma l’ostacolo era, come sempre, dietro l’angolo. Amministratori e costruttori furono al centro di una lunga controversia mossa dai primi, affermando che l’arco armonico fosse riuscito sordo. A dirimere la vicenda, il solo che per talento e autorità avrebbe potuto farlo, fu chiamato proprio Giovan Battista Filippo Basile, che approntò delle correzioni finalmente decisive.
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Agrigento giunse ad aprire il suo teatro nel 1880, e l’anno successivo, durante una visita della Regina Margherita, le autorità decisero di dare il nome della sovrana al teatro. Luigi Pirandello aveva solo quattordici anni; di certo presentiva che sarebbe diventato uno scrittore, ma non che nel 1934 avrebbe ricevuto il premio Nobel «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale», né che alla sua morte sarebbe voluto essere seppellito con un «carro d'infima classe, quello dei poveri», né infine che la sua città, con delibera del dicembre 1946, gli avrebbe doverosamente dedicato il suo teatro.

E ancora oggi si chiama così, quasi per una sentenza di giusta immutabilità: Teatro Luigi Pirandello. A presiederne la Fondazione, oggi, è Gaetano Aronica, che alcuni addietro fu mobilitato da Roma, dove attendeva ai suoi prestigiosi impegni d’attore in numerosi film per la televisione e per il cinema (con il solo Tornatore, ha recitato in Baaria e Malena). Avrebbe potuto dire di no, Gaetano Aronica; ma è di Agrigento, lui, e ha detto di sì.

È quindi doppiamente colpevole, perché non potrà mai dire di non conoscere la sua città, e gli azzardi della malevolenza per cui, per dirla con Pasolini, il successo è sempre l’altra faccia della persecuzione. Quel carattere degli agrigentini che, Pirandello lo dice, sono sottotraccia, per cui dietro cavillosi ragionamenti o lambiccati sofismi può nascondersi talvolta il genio e talaltra il senapismo.

Ma Gaetano Aronica ha i suoi rimedi culturali, essendo un uomo di tenace concetto, con la stoffa dell’artista e l’ingegno dell’intellettuale. Al tempo di emergenza da COVID-19, il teatro è proprio uno dei settori intorno ai quali, nel mondo della cultura, più si sta dibattendo; ed è giusto che sia così, perché il teatro riguarda gli interpreti come gli autori, i tecnici come gli spettatori.

Fra le arti, anzi, è con il cinema quella che più richiama al rapporto con il pubblico, oggi reso impossibile dalle disposizioni governative. Che non si discutono, sia chiaro; e però sollevano un problema interessante anche sotto il profilo del dibattito culturale, in un paese che ha dato al teatro meno di quello che ha ricevuto.

Per le sue circostanze strutturali e per i suoi contenuti, il teatro riflette sempre un’idea di crisi, e, di più, vive di essa per atomizzare drasticamente l’idea del tempo presente. È dunque da questa crisi che proprio il teatro, per le sue difficoltà storiche, avanza soluzioni e rese, conflitti e solidarietà.

Di questo abbiamo discusso con Gaetano Aronica, partendo proprio dalla sua professione.

«La categoria professionale di cui faccio parte – dice l’attore - cioè quella dei lavoratori dello spettacolo, è stata duramente colpita da questa epidemia poiché è stata la prima a chiudere i battenti e probabilmente sarà l’ultima per evidenti motivi a riaprirli. È successo tutto in una notte come un pessimo presagio. Ho perso più lavoro in questi due mesi che negli ultimi
dieci anni. A questo va aggiunto il fatto di appartenere alla categoria dei lavoratori autonomi, per natura e per scelta, intermittenti, privi di quelle garanzie e paracaduti sociali che negli altri paesi europei sono di norma.

Questa mancanza, questa assenza delle istituzioni, del governo centrale in primis è oltremodo inspiegabile perché proprio l’Italia dovrebbe puntare sul settore come uno dei volani dell’economia, legato alle bellezze turistiche, paesaggistiche, archeologiche, storiche e realizzare con più facilità di altri Paesi quella sinergia che gli americani chiamano "Industria culturale"».

Le sue riflessioni, dal momento personale, si fanno generali, interpretando il suo ruolo di presidente di un teatro pubblico di una città come Agrigento, che, fra le tante della Sicilia, subisce drammaticamente gli esiti della paralisi sociale.

«Il Teatro Pirandello di Agrigento, di cui da qualche anno sono presidente, ne è un esempio. Abbiamo ereditato una struttura piena di debiti, produttivamente sterile e con pochissimi e distratti spettatori che godeva di un contributo inferiore a quello di paesi della provincia di poche migliaia di abitanti, completamente assente nel tessuto sociale e cittadino, senza prospettive, che si trascinava stancamente imbastendo stagioni senza alcuna strategia, senza nessun progetto culturale a medio e lungo termine, avulso da ogni altra attività culturale, quasi un peso per la città.

In pochi anni siamo riusciti, con una gestione virtuosa, non solo a moltiplicare il bilancio ma soprattutto a creare un nuovo entusiasmo, a creare un pubblico, non solo in città ma in tutta la provincia e oggi ci siamo fatti un bel nome in tutta Italia
grazie al fatto innanzitutto che riusciamo a presentare stagioni di alto livello, a pagare le compagnie tempestivamente, a produrre non solo spettacoli di qualità, competitivi in campo nazionale, ma a formare giovani, attori, tecnici, operatori, scenografi, costumisti, registi, con attività laboratoriali di primo livello, con concorsi e rassegne sia in ambito locale che nazionale e internazionale, insomma a dare una speranza anche nella nostra Isola a tutti coloro che vogliano intraprendere professioni nel mondo del teatro, dell’arte, della cultura.

Abbiamo oggi più di ventimila studenti che assistono ai nostri spettacoli, circa mille abbonati per le repliche serali; abbiamo soprattutto un pubblico attento e competente che è cresciuto con noi, con produzioni nostre e spettacoli ospiti sempre in linea con una precisa politica culturale di innovazione, sperimentazione, ricerca.

Inoltre, punto fondamentale, ci siamo affrancati dalle logiche assistenzialistiche che per anni hanno affossato e ammorbato la Sicilia, dirigendo il Teatro Pirandello da un punto di vista gestionale e amministrativo come fosse un’azienda privata ma con obiettivi, compiti e strategie culturali da “servizio pubblico”.

Siamo presi oggi in gran considerazione dalle istituzioni, siamo stimati e considerati come un modello virtuoso che si pone come ponte tra pubblico e privato non solo a livello regionale ma anche in campo nazionale . Una prova di tutto ciò? Siamo uno dei pochissimi teatri in Italia ad avere da almeno due anni il bilancio in attivo e questo è un dato fortemente indicativo di quella tensione verso l’industria culturale di cui precedentemente parlavo.

L’epidemia ha stroncato questo entusiasmo. Ha interrotto questo ciclo virtuoso proprio nel suo momento migliore, quando i frutti del paziente lavoro durato circa cinque anni stavano maturando. L’entusiasmo e la partecipazione del pubblico e il livello delle manifestazioni aveva raggiunto negli ultimi due anni, traguardi davvero importanti. Ma i teatranti sono duri a morire, sono abituati alle crisi, così pure le idee nelle quali fermamente crediamo.

Ci stiamo già riorganizzando con due strategie. La prima, a breve e medio termine, intesa soprattutto a limitare i danni, a trovare le condizioni, per quanto provvisorie, per riaprire i teatri e riconquistare il pubblico con tutte le misure di sicurezza necessarie perché la gente si possa riavvicinare serenamente e godere degli spettacoli e degli eventi proposti.

Abbandonata immediatamente la velleitaria e direi anche suicida idea dello streaming, dobbiamo proiettarci con coraggio verso una fase diversa, nuova, che sia anche più attenta a correggere difetti e limiti esistenti anche prima del Coronavirus, una fase in cui dobbiamo essere in grado di lanciare in campo idee nuove, grandi idee aggreganti, visioni, strategie che siano in sintonia con un mondo nuovo e un nuovo inizio che coinvolgerà tutte le attività umane».

Gaetano Aronica solleva, nelle ultime battute, una questione di cui si sta dibattendo in molti, tra favorevoli e contrari: l’idea di vivere l’esperienza teatrale in streaming. Idea suicida, per lui; e noi siamo assolutamente d’accordo.

Ancora Pasolini ci ricorda come «il teatro è comunque, in ogni caso, in ogni tempo e in ogni luogo, un rito»: un rito che nella storia dei secoli è stato prima naturale, poi religioso, poi politico, poi sociale, e infine un rito propriamente teatrale. Ma è un rito collettivo, che la solitudine di un divano di casa mortifica e svilisce, che ha bisogno, oggi, escogitando le sue strategie, di una nuova forma di socializzazione.

Se proprio deve scendere i gradini di un palco, il teatro deve tornare nelle piazze, ridiventare corale, esorcizzante, creativo, disammaestrato. Lo dice, e quasi lo ribadisce a se stesso, Gaetano Aronica.

«Il Teatro viene dal rito e sarà sempre vivo sino a quando ci saranno idee e anche uno spettatore, un attore e una storia da raccontare. La dimensione quotidiana non può bastare ad una società così evoluta, il rapporto con la vita vera, la vita dei sentimenti e delle emozioni, dei ricordi e dei sogni, delle speranze e del futuro, della crescita spirituale di un popolo, della sua civiltà, della sua identità, dell’indagine nell’animo umano e nel mistero, insomma il filo teso dell’uomo verso i grandi ideali e anche la silenziosità della materia pura che si fa vita e deve incidere e rapportarsi con la vita per migliorarla, per migliorarci, ecco, credo che questo e tanto altro sia il senso del Teatro.

La gente avrà sempre più bisogno della cultura, del teatro, per riconoscersi in una comunità che celebri una nuova estetica del vivere, indispensabile non solo ad una dimensione di bellezza ma anche alla conoscenza del mondo con gli strumenti di una ritrovata spiritualità e di un nuovo Umanesimo».
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