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"American Dreamz", viva il sogno (malato) americano!

  • 19 giugno 2006

American Dreamz
di Paul Weitz
con Hugh Grant, Dennis Quaid, Willem Dafoe, Mandy Moore
Usa 2006

Il caustico presentatore di “American Dreamz” (impersonato da Hugh Grant) è un demiurgo che plasma lo show con le cure e le attenzioni di un padre. Senza vergogna né ritegno, schiaccia il pedale del trash valicando i limiti dell’eticamente corretto. Crea dal nulla i propri personaggi con lo scopo d’accendere conflitti tra i concorrenti e rinfocolare gli animi degli spettatori. In finale, così, si contendono lo scettro di vincitore un terrorista arabo, un ebreo rap-man e un’avvenente e spregiudicata ragazzotta (Mandy Moore), che si trascina dietro il fidanzato reduce dall’Iraq per suscitare commozioni ricattatorie.

Come se non bastasse il Presidente degli Stati Uniti (Dennis Quaid) comincia a leggere i giornali e cade in depressione perché scopre una realtà un tantino diversa da quella descritta nei briefing della Casa Bianca (“Ma tu lo sapevi che gli ‘irakistani’ si dividono in sciiti, sunniti e curdi?”). Il Capo di Stato (un Willem Dafoe dall’inequivocabile pelata alla Dick Cheney) deve correre ai ripari e pensa che per fargli recuperare un po’ di popolarità non ci sia niente di meglio che scaraventarlo nella trasmissione più seguita dagli americani...

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Lo spunto non era male: fare una satira sull’America partendo dalla parodia di uno dei suoi reality di maggior successo, “American Idol”. Ma l’ultima fatica di Paul Weitz (regista che da “American Pie” ad “About a boy” aveva dimostrato di saper confezionare ritratti vivaci e azzeccati della gioventù disfunzionale d’oggi) non osa e non graffia, forse proprio perché conferma ancora una volta di essere troppo affezionato ai suoi personaggi e di non possedere il necessario cinismo e distacco che una trattazione del genere richiede. Il tono, solo in superficie insolente e spregiudicato, in realtà bonario e condiscendente, finisce per trasmettere un messaggio ambiguo. La società americana sarà pure messa male, obnubilata dai ricatti mediatici di un conduttore frustrato, in preda ai capricci di un Capo di Stato con un quoziente sotto la media, eppure non vedete come si divertono tutti gli spettatori? Come sono carini i concorrenti che sgambettano, si mettono teneramente alla berlina di fronte alle telecamere e sono disposti a tutto (anche morire) per guadagnarsi il proprio quarto d’ora di celebrità?

Quel che è peggio è che perfino gli islamici abbandonano i moti terroristici e abbracciano lo sbrilluccicante american way of life. Quanto a critica dei mass media siamo a una ripetizione dei vecchi cliché di “Quinto Potere”. Come satira politica era decisamente più efficace e sfrenata quella follia scurrile di “Team America”. Spernacchiare George Bush, invece, è ormai fin troppo facile: un giochino d’ordinaria amministrazione (non siamo molto distanti dalla profondità di “Scary Movie 4”). Con il rivolgimento finale si recupera un po’ (apparentemente quasi un lieto fine, in realtà una raggelante perpetuazione dello status quo politico-mediatico), ma nel complesso il film resta abbastanza insipidino e diverte con moderazione. In ogni caso tutto il cast sembra particolarmente motivato e offre ottime prove (non solo i grandi Dafoe, Quaid e Grant, ma anche la Moore, che già con “Romance & Cigarettes” aveva dimostrato d’essere qualcosa di più che semplice presenza fisica e canora).

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