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Il mercante di Venezia: una ricostruzione perfetta, forse eccessiva

  • 25 luglio 2005

Il Mercante di Venezia (The Merchant of Venice)
Gran Bretagna, Italia 2004
Di Michael Radford
Con Al Pacino, Lynn Collins, Jeremy Irons, Charlie Cox, Joseph Fiennes, Kris Marshall, Zuleikha Robinson, Allan Corduner

Sicuramente vedere un film tratto da un’opera di Shakespeare raramente può deludere (a meno che non si abbia la sfortuna di imbattersi in un regista del tutto incapace) e “Il Mercante di Venezia”, riduzione cinematografica dall’omonimo testo del drammaturgo inglese, di Michael Radford (il regista de “Il postino”), non viene meno a questa affermazione. Accanto alla bellezza del testo (incredibilmente attuale) e alla bravura degli attori (da un ispirato Al Pacino nella parte dell’usuraio Shylock, a Jeremy Irons e Joseph Fiennes), è l’accurata ambientazione dell’epoca (siamo alla fine del 1500) che si fa notare, perfetta nella ricostruzione che ne ha voluto fare il regista (gli esterni girati a Venezia). Questa ricerca della perfezione estetica e della scena domina la prima parte del film e se da una parte evidenzia la grande produzione a sostegno della pellicola, dall’altra però attenua la forza narrativa del racconto per immagini. E allora accade che la parte più bella del film sia quella dove maggiormente risalta il testo, la pregiata parola dell’autore inglese, i fini ragionamenti e l’acuta trama dalla quale si evince, ancora una volta come spesso accade nelle opere del grande drammaturgo, una profonda conoscenza dell’animo umano che lascia basiti. Ma ecco la trama: per poter corteggiare degnamente la bella Porzia il nobile Bassanio (Joseph Fiennes) deve chiedere un prestito ad Antonio (Jeremy Irons), il mercante di Venezia, suo caro amico.

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Antonio deve però a sua volta farsi prestare il denaro dall’usuraio ebreo Shylock (uno strepitoso Al Pacino) che, come pegno per la restituzione della cifra, pone l’incredibile condizione di prelevare una libbra di carne dal corpo dell’affascinante Antonio. Dicevamo della bravura degli interpreti e della bellezza del testo, e in effetti oltre a questo ci sembra che ben poco abbia aggiunto di suo il regista, essendo già tutto scritto. L’attualità delle problematiche (il terribile pegno che l’ebreo richiede non è altro che una esortazione alla tolleranza), l’intelligente confronto fra i sessi (favorito, fra l’altro, dal travestimento, artifizio ricorrente nelle opere di Shakespeare), l’acutezza dei fini ragionamenti e l’alta poesia del testo, di certo tutto questo ha facilitato il compito del regista, al quale peraltro va il merito di averlo comunque reso in un racconto per immagini elegante e ricco di stile. Forse poteva concedere un po’ più spazio all’immaginazione dello spettatore, evitando di mostrare certe scene e lasciando qualcosa alla magia dell’evocazione e delle suggestioni (per esempio lì dove viene riferito delle vicende della figlia di Shylock, Jessica, dopo la sua fuga dalla casa paterna), ma sappiamo bene come da tempo ormai sia la vista il senso che domina sugli altri (sopratutto al cinema, poi) e così quanto più c’è da vedere, meglio è (non è chiaro per chi, però). E che dire di quell’ ”essenziale, invisibile agli occhi, che non si vede bene se non col cuore”, di cui parlava Antoine de Saint-Exupéry nel suo delizioso “Il piccolo principe”? Noi siamo fra quelli che ancora ne sono in cerca ...

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