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La ricerca della visione

  • 23 ottobre 2006

Black Dahlia
2006, Usa
di Brian De Palma
con Josh Hartnett, Scarlett Johansson, Hilary Swank, Aaron Eckhart, Mia Kirshner

Chi va a vedere un Brian De Palma si aspetta sempre piroette e fuochi d’artificio: pianisequenza, splitscreen (o doppie focali), dolly turbinosi, tendine e dissolvenze incrociate, possibilmente un assassinio hitchcockiano nella tromba delle scale. Altrimenti non si va a vederlo. Da questo punto di vista si può stare tranquilli: “Black Dahlia” è visivamente fastoso, sinuoso, tirato a lucido nella sua fotografia ferrettiana e nei suoi costumi setati e angorati. Occhio però a scambiare le ossessioni formaliste del regista di “Omicidio a luci rosse” e “Il fantasma del palcoscenico” per vuoto barocchismo, esangue esercizio di stile e sterile citazionismo. Oltre l’amore per i noir classici e per lo zio Alfred c’è di più: ogni opera di De Palma è una riflessione sullo statuto di un genere, in perenne equilibrismo tra la restaurazione dello stile classico e la sperimentazione (non solo tecnica e tecnologica) delle suggestioni digitali contemporanee.

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Da questo punto di vista forse è “Femme Fatale” il capolavoro depalmiano: più che un film un trattato di teoria dello sguardo contemporaneo. Tuttavia con “Black Dahlia”, che pur non raggiunge la complessità teorica del suo capolavoro precedente, l’autore procede lungo il medesimo sentiero e non cessa di porsi interrogativi scopici ed epistemici. Una chiave di lettura può trovarsi nel ricorso così insistito della doppia focale in accostamento alla soggettiva. I personaggi di “Black Dahlia” si sforzano di “vedere tutto”: la doppia focale è la ricerca della visione totale, che trascende le limitazioni e la transitorietà umane per divenire oggettiva. Insomma è la ricerca ossessiva della verità portata avanti dai poliziotti-pugili impersonati da Josh Hartnett e Aaron Eckhart, alle prese con l’inquietante ed enigmatico omicidio della starlettina hollywodiana degli anni Quaranta. Molte critiche si soffermano sull’intreccio ingarbugliato, confuso, in alcuni punti privo di credibilità, dal finale insipido. Ma forse a De Palma non interessa il racconto di James Ellroy dal punto di vista letterale, forse la sua detection è più di natura filosofica che concreta.

Gli attori, le cui prove sono state ritenute deludenti - ma è impossibile non entusiasmarsi almeno per la femme fatale Hilary Swank e l’inquieta Dalia Mia Kirshner - sono solo pedine da muovere in un gioco che non comprendono (proprio alla maniera del vecchio Hitch). La narrazione procede per opposti: fuoco e ghiaccio, eros e tanathos, ego e alter-ego, bisessualità. Tutti calati in quel gran teatro che è Hollywood, vale a dire il cinema con la C maiuscola, regno fondato sulla falsità e sul dualismo attore-personaggio. Verità e finzione sono, di nuovo, le doppie componenti di questa doppia focale. Segni opposti di un’equazione che combacia in un unico caso, non già nel finale troppo sospettosamente quadrato, ma piuttosto quando ci appare la Dalia Nera, seppur solo indirettamente tramite vecchi provini amatoriali: un’epifania in cui attore e personaggio arrivano a fondersi, dove presenza e assenza riescono a sovrapporsi, dove simulazione e smascheramento prendono forma in un unico corpo (svuotato). E chi potrebbe celarsi dietro la voce off dei provini se non il nostro demiurgo Brian?

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