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"Parole d’amore", la formula della Grazia

  • 1 febbraio 2006

Parole d’amore (Bee Season)
U.S.A., 2005
di Scott McGehee e David Siegel
con Richard Gere, Juliette Binoche, Flora Cross, Max Minghella, Kate Bosworth

La luce di Dio potrebbe pure essere in ognuno di noi, ma bisogna saperla cercare. L’ispirazione alla spiritualità ci conduce lungo i sentieri più impervi della condizione umana, alle origini del Discorso e dunque delle lettere dell’alfabeto, nella zona in cui si possono frequentare i segreti dell’universo. La luce divina ci spinge a quel viaggio di conoscenza che consente di ritrovare le condizioni di un dialogo originario. Ma quali sono le parole necessarie per cercare l’ascolto di Dio? “Il mondo delle lettere è il mondo dell’estasi” secondo la filosofia di Abraham Abulafia (1240-c. 1292), un mistico di religione ebraica vissuto nel periodo medievale che indicava proprio nelle parole la via maestra per l’elevazione spirituale suprema. Ogni anno in America si fanno delle gare di spelling a cui partecipano alcuni tra i più dotati bambini di scuola elementare. Le prove della “Spelling Bee” consistono nella scomposizione di parole anche sconosciute delle quali è importante eseguire una corretta pronuncia, per rintracciarne la bellezza. Con queste premesse è facile entrare in sintonia con il bel film diretto dai registi Scott McGehee e David Siegel (“I segreti del lago”) da noi maldestramente tradotto col titolo “Parole d’amore”. Derivato da un romanzo rimarchevole, “La stagione delle api” (che ha rivelato la scrittrice Myla Goldberg), il film è servito da una sceneggiatura delicata e toccante, scritta da Naomi Foner Gyllenhaal, madre degli attori Jake e Maggie e autrice del copione di una non più recente (e da noi sottovalutata) pellicola di Sydney Lumet, “Vivere in fuga”.

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Le api sono le lettere che, fluttuando nell’aria, formano un discorso. Così comincia ogni racconto e, forse, ogni film. Questo di cui parliamo è un complesso dramma d’ambiente familiare. C’è la piccola Eliza (Flora Cross), fenomeno delle gare di spelling. E ci sono il padre Saul (un convincente Richard Gere), professore universitario di religione ebraica, con la moglie Miriam (Juliette Binoche) di professione ricercatrice, mentre il figlio maggiore è Aaron (Max Minghella, nella vita figlio del regista Anthony) che studia il violoncello. La famiglia Naumann, così apparentemente perfetta, vive a Oakland. Saul è convinto che la dottrina della Cabala sia in grado di tenere in piedi qualsiasi equilibrio instabile, compreso quello del proprio nucleo familiare, ma si illude. La moglie Miriam è una donna fragile che non è riuscita a superare il trauma della morte dei genitori in un incidente automobilistico avvenuto quand’era piccola. Aaron è un ragazzo lacerato a cui non basta la terapia del violoncello e finisce con lo scoprire il fascino dei seguaci di Krishna grazie ad una ragazza, Chali (Kate Bosworth). Nel momento in cui il padre si accorge, grazie al figlio Aaron, che Eliza possiede il potere magico dello spelling si butta a capofitto nello studio di un vocabolario mistico, finendo per trascurare la famiglia, al fine di far vincere alla figlia il torneo nazionale di “Spelling Bee” a Washington. Tutti i protagonisti di “Parole d’amore” sono spinti da una sincera vocazione spirituale. Ma quella di Saul diviene presto una ossessione capace di provocare la crisi della sua famiglia.

Il filo che si spezza conduce Aaron verso altri lidi religiosi, mentre in Miriam la fragilità si traduce in qualcosa che somiglia alla follia ma che è solo desiderio d’amore, di quel calore che potrebbe essere in grado di rimuovere il doloroso trauma originario (in questo ci ricorda un altro famoso personaggio interpretato dalla Binoche, la Julie del “Film Blu” di Kieślowski). Non possiamo, anche questa volta, non ammirare la grazia della Binoche, la sua incredibile intensità di attrice capace di dare luce alle ombre della psiche. La piccola Eliza è invece colei che è in grado di dare un senso alla propria naturale tensione, grazie alla sua dote speciale (l’undicenne Flora Cross, argentina di origine ebraica, è al suo felicissimo debutto: somiglia peraltro alla Binoche e le auguriamo lo stesso successo). Questa ricerca incessante utile a restituire il significato spirituale del vivere stesso viene raccontato dalla coppia di registi anche attraverso l’utilizzo retorico di piccoli simboli: i fiori che sbocciano sul collo di Eliza quando questa chiude gli occhi per concentrarsi, le lettere luminose che poi l’avvolgono e la colomba che si posa sulle lettere fatidiche. C’è poi il caleidoscopio che la madre regala alla figlia, oggetto che richiama la complessità di ogni visione e di ogni apparenza, riflesso di quella possibilità estrema che tutti noi possediamo di superare la patina del reale per abbandonarci all’estasi dell’armonia divina. Questo film, fluido e compatto, ci presenta una emblematica vicenda di lotta contro il comune quotidiano dolore. E ci prospetta, come possibile soluzione, l’arduo calvario di un’ascensione fatale, fuori da noi stessi, ad incontrare il mistero di quel qualcosa che chiamiamo Grazia.

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