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"V per Vendetta", un cuore eversivo sotto la maschera del blockbuster

  • 10 aprile 2006

V per Vendetta (V for Vendetta)
U.S.A., 2005
di James McTeigue
con Hugo Weaving, Natalie Portman, Stephen Rea

V come V. Mantello di velluto, cappello a cilindro, lunga parrucca nera e maschera cristallizzata in un macabro sorriso – ritrae Guy Fawkes, cospiratore che tramò di far esplodere il Parlamento londinese il 5 novembre 1605 – è l’eroe di questa storia, geniale invenzione di uno dei graphic novelist più grandi di sempre, Alan Moore. V è, a dire il vero, un antieroe lontano anni luce dai canoni del cinema e del fumetto mainstream: eversivo (in fin dei conti si tratta di un bombarolo che ha sposato l’ideale anarchico), colto e demodé (parla per versi scespiriani, ha un’incontenibile ossessione per la penultima lettera dell’alfabeto e si ispira alle gesta del Conte di Montecristo). Un martire della Verità, immolatosi per scuotere l’acquiescenza del popolo inglese intontito dai proclami di un regime fascista che stermina ogni minoranza e schiavizza le masse.

Doppia V come Wachowski, una per ogni fratello. Il duo di “Matrix” si limita a produrre e ad adattare la sceneggiatura, ma lascia l’impronta sul tutto il progetto, cui lavora con autentica passione da prima che diventasse famoso per la trilogia più new age del cinema americano. La regia di James McTeigue, eterno secondo (nel senso che fino ad ora si era occupato solo delle seconde unità di produzioni importanti come appunto “Matrix” e “Star Wars: Episodio II”), è troppo debole e si fa risucchiare dall’afflato retorico tipico delle gesta di Neo (c’è pure il bullet-time adattato alla lotta con i coltelli). Una pomposità che nulla ha a che fare col tono dimesso del soggetto originale, i cui protagonisti si tramutano in eroi per necessità (V) o per caso (Evey) ed emanano una costante aura di grottesca e ombrosa melanconia.

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V come Variazioni. Sarebbe insensato (e forse illegittimo) condannare il film per infedeltà al testo originale (anche se Moore ha rinnegato il progetto cinematografico), incaponirsi per le superflue varianti linguistiche (perché “Strength to Unity” invece di “Strength to Purity”? Perché “L’Inghilterra domina” al posto di “Prevalga l’Inghilterra”?) o impuntarsi sullo stravolgimento del rapporto tra V ed Evey. Quattordici anni, un oceano e un medium diverso, in fondo, dividono Il V di cellulosa da quello di celluloide. Il “V for Vendetta” del 1989 era una graphic novel underground che metabolizzava le ansie del buio periodo thatcheriano e si guadagnava di diritto un posto nel filone, tutto britannico, delle utopie alla rovescia fantascientifiche, facendo compagnia a “1984”, “Il Mondo nuovo”, “Fahrenheit 451” e “Brazil” (Terry Gilliam è americano di nascita ma inglese nello spirito). Il “V per Vendetta” (ma c’era bisogno di tradurre il “for” in italiano?) del 2005 è un blockbuster pirotecnico che assimila il panico dell’(ancor più?) buio periodo bushiano e lo restituisce sottoforma di positività e positivismo stellestrisce.

V come “Variety”. Non bisogna dimenticarsi che il “V per Vendetta” targato Warner Bros non è un pamphlet rivoluzionario e controculturale, ma è soprattutto entertainment, star system, merchandising e ogni altro fastidioso termine anglofono cha abbia a che fare con lo sfruttamento commerciale. Ci tocca la storia d’amore, l’umanizzazione del personaggio protagonista, la ricerca della complicità del pubblico (tramite insistita focalizzazione sulla massa), l’apoteosi finale a suon di fanfare e fuochi d’artificio. Vista in quest’ottica, c’è da ringraziare i Wachowski per essersi permessi dialoghi del tipo: “E tu farai in modo che questo accada facendo esplodere un palazzo?” – “Il palazzo è un simbolo, come lo è l’atto di distruggerlo: sono gli uomini che conferiscono potere ai simboli”, per aver fatto saltare in aria (con gli effetti speciali) il Parlamento inglese a meno di un anno dalle stragi di Londra, per aver dipinto gli Stati Uniti in preda alla guerra civile e per non aver rinunciato alla figura del prete pedofilo. Ma, d’altronde, è lo stesso V che dice: “Una rivoluzione senza un ballo è una rivoluzione che non vale la pena di fare”. La vita, come il cinema, non è altro che un “vile cabaret”.

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