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“Verità supposte”: intervista a Caparezza

Caparezza: «Non ce l’ho con nessuno in particolare, semplicemente assimilo tutto quello che mi sta intorno»

  • 24 dicembre 2003

Un bagaglio carico di provocazioni in rima e taglienti giochi di parole: è il biglietto da visita di “Verità supposte”, il nuovo album di Caparezza, che in occasione del concerto del 20 dicembre scorso allo Zsa Zsa Art Factory di Palermo, si concede per qualche domanda.

Guardandoti indietro negli anni, come vedi il confronto con quello che sei oggi, artisticamente e intellettualmente?
«Penso si possa definire un’evoluzione, di certo nel mio caso non si può dire “era meglio quello degli esordi”: ho cominciato tempo fa con la mia disavventura targata MikiMix, era la carriera del compromesso con tutto e con tutti, un periodo marcato anche da una certa labilità mentale, nel senso che mi veniva facile accettare tutto senza imporre il mio punto di vista, e dopo la disavventura ecco la crisi di rigetto che si chiama Caparezza, che non nasce dal desiderio di dimenticare il passato, ma da quello di considerare l’esperienza vissuta come un anti-modello, per avere la certezza di non tornare com’ero».

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Arriva il secondo disco, irriverente, dissacrante, pieno di critiche pungenti. Ma con chi ce l’hai?
«Non ce l’ho con nessuno in particolare, semplicemente assimilo tutto quello che mi sta intorno, come se io vivessi in una specie di liquido d’umore per cui ho bisogno di sfogarmi, ho bisogno di scrivere per non diventare frustrato, ho bisogno in qualche modo di comunicare, dare sfogo a ciò che ho dentro, mi rivolgo a ciò che circonda me, anzi noi: non è più una questione di politica, ma di coscienza».

Quali sono allora i principi del “Capa-pensiero”?
«La prima regola è il buon senso, mi infastidiscono le questioni che pretendono di andare al di là della logica, penso che questi valori esistano a priori, e allora vado alla ricerca di quell’oggettività che molti definiscono inesistente sbandierando il predominio della propria soggettività davanti alla realtà. Quello che vorrei che si recuperasse è una base oggettiva sulla quale confrontarsi al di là delle etichette e delle correnti con cui si suole suddividere il pensiero. Mi rendo conto di quanto sia difficile».

Quali sono le “verità supposte” che danno il titolo al tuo album?
«E’ un gioco di parole, io mi riferisco a quelle che quotidianamente ci vengono propinate come verità dai media e dalla società, ma che nulla hanno di oggettivo, essendo niente più che supposizioni; e allo stesso modo ciò che io definisco verità può essere respinto come supposizione».

Qualcuno ti ha definito “l’Eminem italiano”, per la capacità di sparare a zero su tutto e tutti, ma anche per l’abilità nei giochi di parole e nell’interpretazione. Che ne pensi?
«Credo sia un paragone erroneo. A me Eminem piace, ma lui è un cantante Hip Pop e io non mi sento tale, lui fa continuo riferimento ai suoi rancori personali con nomi e cognomi, mentre io raramente accenno alla mia vita privata. L’unica cosa che ci accomuna è il rap, ma non capisco questa tendenza degli italiani, popolo di grandi inventori, a cercare un corrispettivo per i propri artisti nel panorama internazionale. Dovrebbe essere al contrario, quindi attendo che arrivi “il Caparezza americano”».

Un tuo idolo nel campo musicale?
«Ascolto di tutto, ma il più grande resta Framk Zappa, un genio dotato di un grande talento musicale, una spiccata intelligenza e un uso dell’ironia impareggiabile, peccato averlo scoperto troppo tardi, ora che non c’è più».

Come nascono i pezzi, prima i testi e poi la musica o al contrario?
«Prima viene la sensazione, poi tutto viene da sé. Considero le basi e i testi come un tutto organico e inscindibile, come se la musica fosse il sangue del mio testo».

Ultimamente hai ricevuto molti consensi dalla critica, ti aspettavi questa crescita?
«Sinceramente no, mi sorprende il fatto che io abbia ricevuto tutte queste approvazioni e non mi dispiace affatto! D’altra parte accetto anche le critiche che ho ricevuto, anche quelle sono positive ma alla fine mi interessa poco: il mio lavoro è quello di fare musica, lascio agli altri il piacere di recensirla. Quel che mi riempie d’orgoglio è sentire pezzi che nascono in un garage di Molfetta cantati dalla gente ai concerti a Milano, Firenze ecc…».

Come vedi il tuo ultimo lavoro?
«E’ un album che io amo molto, al punto tale che mi viene difficile pensare per adesso a un altro disco. E’ un lavoro che racchiude tutta la dedizione, la passione che ho dedicato al progetto e paradossalmente un po’ più di umiltà rispetto al precedente. Mi piace anche il fatto di aver utilizzato strumenti veri oltre alle basi campionate e ci sono dei pezzi a cui tengo veramente tanto come “Io vengo dalla luna” e “Nessuna razza”. In generale lo ritengo un buon lavoro».

Insomma stai accumulando consensi un po’ da tutte le parti per la tua carriera, ma non eri proprio tu che parlavi dei musicisti come “disoccupati con l’alibi dell’arte”?
«Ne sono fermamente convinto, ma se proprio dobbiamo nasconderci dietro a un alibi, meglio l’arte, almeno ci si diverte un po’».

Quali sono i allora i tuoi progetti per il futuro? Cosa vuole fare Caparezza “da grande”?
«Caparezza non diventerà mai grande, questa è la consapevolezza del trentenne in crisi. Pensa che io ho la mania di circondarmi di pupazzi e giocattoli che mi ricordano l’infanzia, lo faccio per nostalgia per un momento in cui riuscivo, come tutti i bambini, a vedere cose che gli altri non vedevano e nessuno avrebbe potuto mai considerarmi un visionario come accadrebbe adesso che ho trent’anni. Lo considero un rifugio. Ad ogni modo adesso sono “condannato” a fare il cantante perché è questo quello che so fare».

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