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Masculi, fimmine e il momento del parto: tradizioni e orribili pratiche (tutte siciliane)

Sembra un bel momento quello del parto e ancora prima quello che lo precede ma in Sicilia tutto è cosparso di rituali e credenze che rendono ogni momento a volte più indimenticabile che unico...

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 20 dicembre 2021

A me questa storia della cicogna che porta i bambini onestamente mi è parsa una minchiata col botto pure quando ero bambino. Sono nato il 22 giugno della 1985 alla clinica Candela, una delle più note della città, situata nel centro di Palermo.

Quello, a parte per il matrimonio di Victoria Principal, nota per il ruolo di Pamela nella soap opera Dallas, deve essere stato uno dei giorni più noiosi della storia dell’umanità perché anche mettendo sottosopra gli archivi non successe proprio niente. Era san Paolino da Nola (protettore dei campanari e dei giardinieri), albeggiava alle 4:36, tramontava alle 19:48, la minima era 18.8 °C e la massima 26 °C. In fine, il calendario, che ancora conservo, nel proverbio giorno diceva ottimisticamente: “ognuno patisce del proprio mestiere” (ma chi l’ha fatto Nostradamus stu calendario?)

I parenti dalla parte del padre a dire “è tutto suo padre è suo tutto padre”, i parenti dalla parte della madre a dire “è tutto
sua madre è tutto sua madre”, io piangevo, tutti ridevano, fiocco azzurro, panettone, spumante, ci siamo visti e tante belle cose! Oggi su per giù la stessa cosa, solo che il bambino non ha nemmeno il tempo di capire da dove si mangia e dove si fa la pupù che già gli è arrivata la richiesta d’amicizia dalla culla accanto.
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Prima invece era tutto diverso: i tempi dei nostri nonni saranno stati anche duri ma c’era decisamente più fantasia di adesso. Per esempio (e queste cose ce le racconta sempre Pitrè in “Usi e Costumi vol. II”), c’era la strana credenza che se il bambino dentro la pancia fosse irrequieto si trattava di femmina, perché le donne, si sa, hanno il fuoco dentro; se invece pareva “morto nell’uovo” si trattava di maschio perché gli uomini col far niente, come si dice a Sette e Mezzo, “si stanno da piatto”.

Per colpa di mia nonna e le sue credenze, e di un’ecografia non impeccabile, quindi, mi comprarono il corredo rosa da femminuccia e decisero che mi dovevo chiamare Valentina… Valentina? A mia?! Nel caso in cui questo metodo non risultasse abbastanza scientifico, e solo se la donna non era “primarola”, cioè di prima gravidanza, si prendeva in considerazione l’ultimo figlio: se aveva i ciuffetti dei capelli a punta il nascituro sarebbe stato maschio, nel caso che i ciuffi fossero stati retti, come tagliati con le forbici, allora trattavasi di femmina.

Come questi elencati c’erano un sacco di modi per capire (dicevano loro!) se si trattava di maschio o femmina, e questa a Palermo è ossessione tanto datata che molto più indietro nel tempo era scoppiato un ero e proprio totoscommesse in cui gli uomini scommettevano piccioli sul sesso di un nascituro.

Nel 1552 il Senato Palermitano, con un bando, vietò tali scommesse perché si erano trasformate in una tototruffa con l’aggravante che le levatrici sotto banco prendevano le mazzette per scambiare i figli della gente e dirottare le vincite (In pratica a Palermo i nostri avi sono gli antenati di qualcun altro e di conseguenza noi siamo tutti discendenti di altri ancora… un macello!).

Quando finalmente era il momento del parto, la levatrice, onde evitare scannate familiari in un momento così bello, ma soprattutto per la filosofia del “niente saccio e niente vogghiu sapiri”, usava un linguaggio in codice: se maschio diceva “ha partorito”, se femmina diceva “ha figliato”. Sempre le levatrici si rendevano protagoniste di un’antica pratica, che al confronto i film di Hitchcock sono la versione censurata de “L’Ape Maia”, chiamata tecnicamente sgàrgiatura.

Le dette levatrici tenevano a tal proposito l’unghia del pollice della mano destra volutamente lungo e affilato. Questo veniva usato come un vero e proprio bisturi con la quale recidere il frenulo della lingua del neonato in modo da evitare future balbuzie; una volta messa in atto questa orrorifica barbaria, la stessa unghia veniva intinta in un piccolo vasetto d’argento con del miele (sgàrgiu si chiamava) che poi veniva passato sotto la lingua del povero bambino che magari già gli era seccato a campare prima ancora di nascere.

Terminata la tortura finalmente era il momento del primo bagnetto, che ai tempi somigliava più a uno stufato che ad altro. La prassi era quella di bollire l’acqua, dove sarebbe stato immerso il bambino, con delle erbe aromatiche e con aggiunta di riso perché si pensava rinforzasse le gambe… una sorta di risotto alla neonata se volete.

E siccome in cucina non si butta via niente o quasi, finito il bagnetto, l’acqua veniva buttata dalla finestra (e chi passava
passava) e veniva urlato “masculo è!” come una sorta di orgoglio in caso di parto mascolino; e se, ahimè questa è una di quelle cose del passato non mi piacciono, il nascituro era femmina l’acqua si buttava nella latrina, o comunque dentro casa, poiché era credenza popolare che l’acqua di venere buttata per strada avrebbe tirato su femmina “bottana”; inoltre era modo per rimarcare che l’uomo era fatto per prendersi il mondo mentre donna di criterio a casa doveva rimanere.

Insomma dopo tutti questi martirii, ed aver già compreso che la vita non sarebbe stata così semplice come si raccontava dentro la pancia, il nuovo arrivato veniva una volta e per tutte messo a riposare dentro la culla.

“Naca” si chiamava anche, da cui deriva il termine annacare (dondolare), e per fare riposare il picciriddo in pace ci lasciamo con un’antica poesia che si recitava proprio in questo ultimo atto. “Cc’è ‘na varcuzza ch’è fatta di tila, Cu ventu e senza ventu sempre mina; la carni chi cc’è dintra chianci e ridi, la carni chi cc’è fora canta e sona”.
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