STORIA E TRADIZIONI

HomeNewsCulturaStoria e tradizioni

Passatempo (e rovina) di nobili e plebei, tra risse e suicidi: l'epoca dei "Cartari" a Palermo

Arrivano in Sicilia in epoca spagnola e diventano presto il pallino di tutti senza distinzione di classe sociale. Come si articolava in città il gioco d'azzardo

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 5 luglio 2023

Carte siciliane

Per molto tempo, le carte da gioco hanno rappresentato il passatempo più diffuso tra tutte le classi sociali, ma quando sono arrivate in Europa?

Le ipotesi sono numerose; tra le più accreditate vi è quella secondo cui sembra che siano stati gli arabi a introdurne l’uso in Spagna: e’ probabile che le prime carte da gioco siano arrivate in Europa attraverso i contatti con i Mamelucchi egiziani, già alla fine del XIV secolo.

Gli arabi potrebbero avere appreso il gioco delle carte in Cina, dove forse era già in uso nel X secolo. Il mazzo dei Mammelucchi conteneva 52 carte, che formavano quattro semi: Jawkân (bastoni da polo), Darâhim (denari), Suyûf (spade) e Tûmân (coppe). Il mazzo di carte più antico d’Europa – risalente alla fine del Trecento o agli inizi del Quattrocento – viene conservato proprio in Spagna: la prima città produttrice di carte fu Barcellona, nel 1377.

Le carte si chiamavano popolarmente naipes. Il termine naipes, deriva dal termine arabo naîb ("reggente, viceré") e indica la carta che nel mazzo dei Mamelucchi veniva subito dopo il re, ossia il fante, l’equivalente del jack inglese.
Adv
L’intero mazzo spagnolo si chiama baraja ed è composto da quaranta carte, in cui sono presenti anche le figure del sota (fante), del caballo (cavallo) e del rey (re). Dai semi delle carte spagnole, derivano le comuni carte in uso in Sicilia, dove i quattro semi rappresentano le classi sociali: coppe gli ecclesiastici; spade l’aristocrazia; bastoni il popolo: oro o denari - comunemente chiamati in siciliano "d’aremi" (forse dal latino aurum, oro) - la borghesia.

Il fante o donna, è figura ambigua, ha fattezze dolci e signorili come quelle di una donna, ma rappresenta un ufficiale minore, più giovane del cavaliere, una sorta di cadetto.

Gli assi sono quattro, uno per seme, ma il più rappresentativo è l'asse di bastone che valeva come monito per chi volesse attaccare briga o, come qualcuno sostiene, era una sorta di amuleto contro il malocchio. A Palermo, dove grazie all’influenza spagnola le carte divennero presto un passatempo diffuso, nacque la maestranza dei Cartari, di cui oggi rimane traccia nella toponomastica cittadina.

I Cartari avevano dapprima le loro botteghe nella zona del Capo, nei pressi di via Beati Paoli, ma dalla seconda metà del Settecento si spostarono nel cosiddetto piano dei Cartari, vicino l’attuale piazza Borsa.

Un tempo ogni corporazione di mestiere (coltellieri, calderai, schioppettieri, materassai, maccheronai, chiavettieri, bambinai, cassari, ecc.) si concentrava in zone specifiche della città.

Solo nel Settecento nell’elenco delle Maestranze appare per la prima volta quella dei cartari; questo significa che il numero dei fabbricanti di carte era divenuta tale da costituire una vera e propria corporazione, come le altre del tempo.

I Cartari furono dunque una delle più recenti maestranze cittadine e producevano carte da gioco che venivano disegnate e colorate a mano, nelle botteghe stesse.

Si racconta che durante la rivoluzione del 1848, un ignoto artigiano realizzò delle carte da gioco che irridevano la monarchia e gli uomini di potere dei Borbone, ma di esse non è rimasta purtroppo traccia storica. “Il gioco diventò presto un modo per stare in società: comune era nelle conversazioni pubbliche e private il giuoco; senza del quale la distrazione più dilettevole, e quindi l'attrattiva migliore, sarebbe mancata.

Nelle grandi feste con solenni ricevimenti, Vicerè, Pretori e signori di alta levatura avrebbero creduto di venir meno alle regole elementari di cortesia non ordinando sale con tavole per giuoco… La calabresella, il tressetti, la primiera: ecco i passatempi preferiti, ma la bassetta specialmente, la quale si faceva anche con donne. Marcantonio Colonna vietava non solo che si giocasse, ma anche che si vedesse giocare", (Giuseppe Pitrè, La vita in Palermo 100 e più anni fa).

La casina dei nobili al foro italico era uno dei luoghi di ritrovo della Palermo aristocratica.

Nel ‘700 diversi viaggiatori rimasero impressionati dei «casini di conversazione» e di questi casini, o circoli, dove conversare e giocare a carte, ce ne erano parecchi in Palermo. I nobili conversavano in inglese e francese, avendolo appreso, gli uomini al Real Convitto San Ferdinando, le donne al Real Educandato Carolino.

Originariamente il gioco d’azzardo era una passione riservata ai nobili e alle classi più abbienti perché le carte erano costose; ma col tempo divenne una vera e propria piaga, non risparmiava nessuna classe sociale.

Il fenomeno spesso degenerava in violente risse e “rese dei conti” che finivano poi in un bagno di sangue. Più e più volte, i viceré del Regno di Sicilia cercarono - invano - di arginare il diffusissimo fenomeno del gioco d’azzardo.

Si legge nel regolamento di polizia: "Non si giochi dove si vende. Medesimamente s’ordina provede e comanda da parte di detto Illustrissimo Capitano, illustre Pretore e spettabili Iurati che di qua innanzi nessuna persona di qualsivoglia grado et condizione non potrà giocare a carte a nessun gioco nelle taverne, fondachi e magazzini ove si vende vino, tanto in questa città come nel suo territorio, nemmeno in casa di donne cortigiane sotto pene di onze 5 d’applicarsi al detto Illustre Capitano e di perdere li denari che si troveranno davanti.

Quelli che permettono questo gioco pagheranno 5 onze ” (Regolamento di Polizia del XVII secolo). Nel 1736 il vicerè Don Pedro de Castro Figueroa e Salazar vietava il gioco in quasi tutte le sue forme, ricordando “l’uso delli giuochi, per essere la causa originaria d’infiniti furti, frodi, omicidj, assassinj, ed altri delitti che alla giornata si commettono”.

A chiunque fosse stato sorpreso a giocare d’azzardo in case private, botteghe, magazzini e altri luoghi era riservata “la pena, se nobili o gentiluomini, di pagare onze duecento per ciascheduno di quelli che giuocheranno ed altre duecento il padrone della casa dove si giuoca… della quale pena si acquisti la terza parte al denunziante, il quale si tenerà secreto, e l’altre due terze parti s’intendano acquistate al Regio Fisco, e non essendo abili a pagare detta somma s’intendano incorsi nella pena d’anni tre di castello ed alli "ignobili" anni tre di galera".

Il gioco era comunque ammesso nelle case private - dove ovviamente non era facile riuscire a fare dei controlli – ma erano permessi solo "giochi per semplice divertimento", come tarocchi, dama o scacchi "a patto che non si ricorresse a inganni, frodi e comportamenti sleali".

Nelle carceri della Vicaria e nei bassifondi di Palermo il gioco delle carte era il preferito del popolino che utilizzava termini segreti tratti dal gergo malandrinesco ("baccagghiu") per scambiarsi informazioni durante le partite e riuscire a barare.

Ad esempio Azzarieddu era detto il due di spade (perchè vi era stampato il cognome del fabbricante Azzarello); Ciccu Paulu e Cirritieddu era chiamato il quattro (per i due duellanti rappresentanti nel centro della carta); Ginirali era il cavallo (perchè i generali erano sempre a cavallo); Mustazzu: toccando i baffi si faceva capire al compagno che l'avversario aveva carte di spade …E così via.

Tra i giochi più diffusi nel secolo scorso vi erano il cucù, sette e mezzo, ti vitti, Zecchinetta (era il gioco più azzardoso), Minicheddu (era il gioco più semplice; vinceva chi aveva il due di spade). Alcuni tragici personaggi palermitani a causa del gioco d’azzardo hanno rovinato la loro esistenza e qualcuno si è spinto fino al suicidio. Ricordiamo qualche storia emblematica, avvenuta in tempi relativamente recenti.

Nel 1925 il barone Giuseppe Fiumegrande, per onorare una perdita al tavolo da gioco al circolo Geraci, fu costretto a rinunciare a 120 ettari di terreno nella Piana di Cinisi.

Rientrato in casa si suicidò, sparandosi un colpo di rivoltella alla tempia. Altro esempio ben noto è quello del principe Raniero Alliata di Pietratagliata che, sempre nel 1925, una sera si recò al circolo Bellini di via Ruggero Settimo e in meno di cinque ore mandò in fumo una cifra folle, qualcosa come 200 mila lire.

Il principe dopo la forte perdita si chiuse per sempre nella sua villa di via Serradifalco e visse in solitudine, dormendo di giorno e vivendo di notte. Il conte Pignone del Carretto, dopo aver perso tutto il suo patrimonio a baccarat finì - per pietà - alle dipendenze dei principi Lanza di Trabia.

Il conte accompagnava le signore e le loro amiche, occupandosi degli aspetti burocratici come comprare i biglietti e saldare i conti di alberghi, ristoranti e vetturini.

Oggi il gioco delle carte (nonostante la concorrenza dei moderni giochi on-line) resta comunque intramontabile: riesce ancora a coinvolgere e ad appassionare e curiosamente si legge su Il Sole 24 ore che durante il lockdown del 2020 è persino aumentata la vendita dei mazzi di carte!
Se ti è piaciuto questo articolo, continua a seguirci...
Iscriviti alla newsletter
Cliccando su "Iscriviti" confermo di aver preso visione dell'informativa sul trattamento dei dati.

GLI ARTICOLI PIÙ LETTI