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Quella apparizione che terrorizzò la città: il "mostro di Palermo" tra fantasia e vendetta

Un paradosso curioso, quello del cosiddetto "Gran Diavolo di Palermo", che non ha un nome ma che tuttavia apparve tra le vie della città il 20 agosto dell’anno 159 d.C.

  • 3 febbraio 2021

Il busto marmoreo di Antonino Mongitore nella chiesa di San Domenico a Palermo

L’innominato è tale in quanto non nominabile. La relazione fra il pensiero e la parola è intimissima, e di ciò si rese conto Platone che nel “Cratilo” intuì il carattere strumentale del linguaggio, sorto per potere comunicare tra gli uomini quello che esiste e quel che loro conoscono.

Insomma, le cose esistono e non basta indicarle. Per comprenderle, perché acquistino un significato e siano discutibili, occorre che abbiano un nome.

La facoltà di nominare - come aveva intuito molto tempo fa Walter Benjamin nel suo “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo” (1916) -, è quella condizione che consente poi di dare un volto e, nel tempo, un contenuto alle cose. Non consente cioè solo di riconoscerle, ma di parlarne.

Accade però, in rari casi, che l’individuo abdichi all’esercizio di nominarle, le cose; che le riconosca nella loro natura feroce e faccia rinuncia della parola, come se non potendole appellare, le cose non esistessero. Un paradosso curioso, quello del cosiddetto mostro di Palermo, che non ha un nome ma che tuttavia apparve nella città il 20 agosto dell’anno 159 dopo Cristo.
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Lo descrive per la prima volta, in lingua spagnola, Antonio Guevara, in un suo libro del 1529, riassunto quasi due secoli dopo da Antonino Mongitore che si riferisce al mostro definendolo anche “Gran Diavolo di Palermo”.

Con rigore autoptico, l’autore scrive: «…E in tempo che cenavano i cittadini, venne in mezzo alla città un mostro. Era alto tre cubiti [un mostriciattolo, dunque, di un metro e trentatré centimetri essendo un cubito romano equivalente a centimetri 44,4] con un solo occhio in fronte. Aveva calva la testa con due corni ritorti. La faccia era d’uomo, ma invece di orecchie aveva due buchi. Le mani e i piedi erano di cavallo ed era privo di collo; la schiena era rilucente a guisa di pesce squamoso.

Il petto si vedeva folto di peli. Stava assiso sopra un carro portato da due leoni seguito da due orsi. Egli però, il mostro, era entro una caldaia onde vedeasi dal cinto in sù. Passeggiò [sic] lentamente per la città gittando faville con terrore di tutti. Molte donne abortirono, altre tramortirono, e tutti sbigottiti corsero ai templi di Giove, di Marte e della dea Febbre con alte grida.

Ma il mostro, dopo avere passeggiato per la maggior parte della città, s’avvicinò col suo carro al palazzo del governatore Solino dove erano alloggiati i corsari e ove erano le ricchezze rapite; ivi, troncato un orecchio a uno dei leoni, con il sangue scrisse sei lettere: R.A.S.P.I.P. Queste non poterono interpretarsi che da una pitonessa tenuta per molto savia che le dichiarò: Reddite Aliena Si (vultis) Propria in Pace (possidere) cioè “Restituite l'altrui se volete godere in pace ciò che vi appartiene”.

Indi il mostro si ritirò in quella notte su un’alta montagna chiamata Jamicia ove stette tre giorni a vista della città e in questo tempo vibrava spaventevoli fiamme e gli orsi e i leoni mandavano fieri ruggiti onde i cittadini si affaticavano a offerire agli dei molti sacrifici e alcuni si cavavano sangue dai piedi e dalle mani offerendolo alle false deità per placarle.

A capo de’ tre giorni, apparve una nuvola oscura e tonando e lampeggiando sopravvenne un orribil terremoto che diroccò duemila case colla morte di diecimila persone. Indi, uscita una fiamma dal monte ove s’era rintanato il mostro, bruciò il palazzo, i corsari e tutte le ricchezze ivi conservate fino ad ardere e consumare le pietre.

L’imperador Marco Aurelio, fatto consapevole di questa spaventevole apparizione, fece fabbricare un tempio a Giove nel luogo ove stette il mostro, in memoria di tal caso. Quel tempio poi dall’imperador Alessandro fu ridotto in castello quando guerreggiò contro i siciliani».

Fin qui la storia, recuperata e trascritta in forma di novella da uno scrittore raffinatissimo, Giuseppe Quatriglio, che ha raccolto - dandogli piena dignità narrativa - alcune cronache dimenticate di epoche lontane in un suo curioso libello dal titolo "L’uomo-orologio e altre storie", pubblicato nel 1995 da Sellerio.

Ed è proprio lui, nel racconto Il mostriciattolo, che offre un gustoso ritratto di Antonio Guevara, un francescano che ebbe una parte di rilievo nella vita letteraria e politica del Cinquecento. Autore di opere a carattere moralistico, cronista reale e confessore di Carlo V, Guevara fu anche inquisitore e vescovo, e proprio il libro che racconta del «mostro spaventevole che fu visto in Sicilia» fece il giro del mondo, con numerose edizioni e imitazioni, pieno zeppo di errori storici e geografici e tuttavia redatto con uno stile forbito e scanzonato.

La vicenda del mostro di Palermo indispettì molto gli intellettuali siciliani, che non tardarono a contrastarla come opera di fervida fantasia, un’invenzione buttata lì senza alcun fondamento. A confutarla con tormentosa diligenza da filologo fu proprio Antonino Mongitore, che, redigendo ventiquattro pagine fitte ed erudite, si riferì al racconto non solamente come a un falso ma soprattutto come a una vendetta.

E non ebbe torto, perché la storia ci riporta la cronaca della fuga dalla Sicilia di un fratello di Guevara di nome Ferdinando, anche lui con una carica inquisitoriale, che quasi per caso ebbe salva la vita dalla furia del popolo palermitano.

Rosa la bile per troppo amore di famiglia, Antonio Guevara si vendicò di Palermo inventando di sana pianta il racconto del mostro, il Gran Diavolo, che non esiste affatto ma che potrebbe essere vero come lo sono le favole nere che in Sicilia non muoiono mai.
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