Sfidò il patriarcato e la mafia: Livia De Stefani, scrittrice palermitana (dimenticata)
Con classica trasparenza la scrittrice dipingeva una Sicilia arcaica e profondamente patriarcale. Il suo romanzo più celebre fu "La vigna di uve nere", l'ultimo su cosa nostra
Livia De Stefani
“Quando ho scritto La vigna di uve nere pensavo che avrei avuto successo solo in Sicilia, invece i siciliani disprezzarono il libro, lo considerarono un’offesa, tanto che per molto tempo non sono potuta tornare nell’isola. Sono dovuti passare venticinque anni perché l’atteggiamento mutasse”. Così parlava Livia De Stefani, siciliana aristocratica, colta, elegante e straordinariamente bella: scrittrice largamente conosciuta per i numerosi fortunati romanzi, ritenuta all’unanimità una voce autorevole nel panorama letterario del dopoguerra italiano.
Con un linguaggio di classica trasparenza, la scrittrice dipingeva una Sicilia arcaica e profondamente patriarcale. La vigna di uve nere non era tuttavia un romanzo veristico, di stampa verghiano: come scriveva Carlo Levi, nell’introduzione della ristampa del 1974, era un racconto “favoloso e tragico di un mondo eroico e feroce”.
Livia De Stefani nasce nel 1913 a Palermo, da una antica famiglia di proprietari terrieri: “figlia di baroni e mistici”, si definisce lei stessa con ironia. È costretta a studiare privatamente per motivi di salute. A sette anni compone già poesie, ma di nascosto, perchè la sua famiglia è contraria agli artisti: “l’artista era visto come persona demoniaca, destinata a essere sepolta in terra sconsacrata". Ricorda la scrittrice.
A soli 17 anni conosce a Roma, in casa dei suoi zii, lo scultore Renato Signorini, celebre soprattutto per le sue sculture raffiguranti ritratti (in modo particolare di papi, monarchi e attrici) e lo sposa. Comincia a frequentare il bel mondo, incantando tutti per la sua raffinata bellezza e i suoi modi aristocratici. Entra nel gruppo di Maria Bellonci (ideatrice insieme a Guido Alberti del Premio Strega) e degli amici della domenica: i loro incontri sono occasione di scambi vivaci di idee e opinioni del mondo letterario. L’ambiente colto contribuisce a formare la maturità culturale di De Stefani; ma è Alberto Savinio colui che tra tutti la incoraggia maggiormente a scrivere.
De Stefani esordisce con Preludio, raccolta di versi del 1940, ispirata alla vita nel feudo agricolo di famiglia, dove aveva trascorso lunghi periodi durante l’infanzia, a causa di una malattia della pelle: malattia “passata misteriosamente così come si era presentata”. Livia ha conservato dei bei ricordi di quei giorni in campagna: “Sono cresciuta solitaria e felice. Vivevo all’aperto, sugli alberi, non potevo andare a scuola. Tutti i miei studi li ho fatti privatamente”. Nel 1953 all'età di quarant'anni pubblica il suo primo romanzo - che diventerà anche il più famoso - La vigna di uve nere (ristampato più volte, nel 1967, nel 1975 e nel 2010) con cui vince il Premio Salento.
Il romanzo è un successo: trova un ammiratore entusiasta in Carlo Levi e viene tradotto in diverse lingue. Nel 1984 ne verrà realizzato uno sceneggiato in due puntate con Lea Massari e Mario Adorf. Il libro "La vigna di uve nere" è il quadro nitido di un mondo spietato, incentrato su regole e consuetudini ataviche, secondo cui l’uomo è padrone e dispone della vita dei suoi familiari, decide il destino della moglie e dei figli. Le vicende del romanzo si svolgono in provincia di Palermo, nei primi decenni del Novecento. Il protagonista è “un vero uomo di mafia”, Casimiro Badalamenti: costretto a lasciare le sue vigne a Giardinello e a trasferirsi a Cinisi, dopo l’uccisione del padre. Qui convive con la procace Concetta, femmina totalmente asservita ai suoi voleri (“gli era schiava nell’anima”). La donna (che si fa mantenere da Casimiro) pur di potere avere una vita agiata, accetta di vivere in un ambiente claustrofobico e soffocante, pronta ad accondiscendere ad ogni richiesta: “sei tu il padrone, il padrone mio”, dice all’uomo, per ammansirlo.
Casimiro è un uomo estremamente possessivo; non le permette di uscire mai di casa, né di frequentare nessuno, tranne l’anziana domestica, finchè di lei che per 10 anni non si mostrerà mai in paese, si finirà per cancellare anche il ricordo. La coppia avrà dei figli e dopo molti anni i due si sposeranno. A prevalere nelle relazioni di Casimiro è sempre una possessività malata: l’uomo vieta alla moglie di uscire di casa (“Se scopro che non mi ubbidisci ti spacco la faccia”); proibisce alle figlie di mostrarsi felici per non essere giudicate ragazze facili; non permette al figlio di studiare, nè di avere amici e arriva persino a tenerlo incatenato, pur di sottometterlo (“Pa’ non ti ha mandato a scuola per questo, per non perderti…Fu tutto amore”).
Il padre- padrone è ossessionato dalla paura del giudizio della gente: ha un senso distorto dell’onore in nome del quale è disposto a sacrificare persino “il proprio sangue”. I peccati di Casimiro e Concetta finiranno per ricadere inevitabilmente sui loro figli: Nicolò e Rosaria nonostante il benessere economico della famiglia verranno risucchiati in una spirale di infelicità, che come in una tragedia greca li condurrà all’incesto e alla morte: Rosaria, rimasta gravida. verrà spinta al suicidio dal padre, per salvare la famiglia dal disonore. Casimiro lucido fino alla fine non avrà mai un dubbio, un ripensamento, un’esitazione e soprattutto non si pentirà mai, piuttosto attribuirà al destino la colpa del suo fallimento come padre, dimenticando che chi semina vento raccoglie tempesta: “come uomo tutti mi rispettano e mi onorano e sa Dio se ho pagato per guadagnarmi rispetto e onoranze…Come padre sono un disgraziato. Fortuna che le figlie mi amano. Ma le femmine, che valore hanno le femmine? Porteranno un altro nome, diventeranno sangue degli estranei".
Dopo il grande successo de "La vigna di uve nere" vengono pubblicati altri romanzi "Gli affatturati" è una raccolta di racconti dedicata ai 3 figli di Livia, Italo, Maria Stella e Letizia; nel 1956 vince il premio Soroptmist. "Gli affatturati" sono individui posseduti dal vizio o da una mania, come il Marchese di Fontesecca ad esempio, personaggio esistito realmente, che per paura dei microbi viveva insieme alla moglie e alla figlia segregato dal mondo: non riceveva visite ed usciva di notte per non incontrare nessuno. Nel 1958 viene pubblicato Passione di Rosa, ambientato tra Sicilia e California; Viaggio di una sconosciuta del 1963 è un romanzo di attrazione e di amore.
Nel 1965 Livia De Stefani comincia a lavorare in una grande casa editrice; il 30 dicembre del 1966, d'improvviso muore di leucemia suo marito Renato Signorini. La produzione narrativa prosegue con "La signora di Cariddi" (1971) drammatico racconto di una donna volta al male per volontà di espiazione; "La stella Assenzio" (1975) romanzo coraggioso imperniato sul malessere esistenziale.
L’ultima fatica letteraria, "La mafia alle mie spalle" viene pubblicato un mese prima della scomparsa della scrittrice e rappresenta la più alta testimonianza del suo talento narrativo: opera autobiografica, è ambientato ad Alcamo, nelle campagne di Virzì e racconta gli incontri con i boss mafiosi, le ritorsioni, la vendetta, l’omertà. Ecco la descrizione che Livia fa di sè stessa, nel tempo in cui amministrava le sue terre: "Ero una donna tutta sola, piantata in mezzo a problemi virili, senza l'aiuto di un incoraggiamento, sia pure di un sorriso... Era una brutta bieca società maschilista ... e che fosse anche mafiosa me ne resi conto non per vie deduttive ma per quelle dell'osservazione diretta..." La scrittrice descrive la bramosia di impossessarsi delle sue terre a qualunque costo: “Nel 1954 - ricorda - per non avere rispettato i loro ordini, l’intero mio raccolto fu incendiato”.
De Stefani cerca di spiegare il fenomeno criminale nel quadro di un mondo patriarcale non ancora estinto. Viene descritto anche il suo incontro con il boss di Alcamo Vincenzo Rimi che esclama: “Pi’ esseri ‘na fimmina, buona arruggiuna!” (Nonostante sia una donna, ragiona bene!). Avrebbe poi dichiarato in una intervista: “Ho un piccolo vanto: essere stata la prima in Italia a parlare del potere mafioso come di qualcosa che comporta un carattere particolare dell’uomo: violento, chiuso, autoritario e protettivo, con il culto del proprio potere e della sottomissione degli altri (..)”. Livia De Stefani si è spenta a Roma, il 28 Marzo del 1991: Palermo purtroppo l’ha già dimenticata… .
Con un linguaggio di classica trasparenza, la scrittrice dipingeva una Sicilia arcaica e profondamente patriarcale. La vigna di uve nere non era tuttavia un romanzo veristico, di stampa verghiano: come scriveva Carlo Levi, nell’introduzione della ristampa del 1974, era un racconto “favoloso e tragico di un mondo eroico e feroce”.
Livia De Stefani nasce nel 1913 a Palermo, da una antica famiglia di proprietari terrieri: “figlia di baroni e mistici”, si definisce lei stessa con ironia. È costretta a studiare privatamente per motivi di salute. A sette anni compone già poesie, ma di nascosto, perchè la sua famiglia è contraria agli artisti: “l’artista era visto come persona demoniaca, destinata a essere sepolta in terra sconsacrata". Ricorda la scrittrice.
A soli 17 anni conosce a Roma, in casa dei suoi zii, lo scultore Renato Signorini, celebre soprattutto per le sue sculture raffiguranti ritratti (in modo particolare di papi, monarchi e attrici) e lo sposa. Comincia a frequentare il bel mondo, incantando tutti per la sua raffinata bellezza e i suoi modi aristocratici. Entra nel gruppo di Maria Bellonci (ideatrice insieme a Guido Alberti del Premio Strega) e degli amici della domenica: i loro incontri sono occasione di scambi vivaci di idee e opinioni del mondo letterario. L’ambiente colto contribuisce a formare la maturità culturale di De Stefani; ma è Alberto Savinio colui che tra tutti la incoraggia maggiormente a scrivere.
De Stefani esordisce con Preludio, raccolta di versi del 1940, ispirata alla vita nel feudo agricolo di famiglia, dove aveva trascorso lunghi periodi durante l’infanzia, a causa di una malattia della pelle: malattia “passata misteriosamente così come si era presentata”. Livia ha conservato dei bei ricordi di quei giorni in campagna: “Sono cresciuta solitaria e felice. Vivevo all’aperto, sugli alberi, non potevo andare a scuola. Tutti i miei studi li ho fatti privatamente”. Nel 1953 all'età di quarant'anni pubblica il suo primo romanzo - che diventerà anche il più famoso - La vigna di uve nere (ristampato più volte, nel 1967, nel 1975 e nel 2010) con cui vince il Premio Salento.
Il romanzo è un successo: trova un ammiratore entusiasta in Carlo Levi e viene tradotto in diverse lingue. Nel 1984 ne verrà realizzato uno sceneggiato in due puntate con Lea Massari e Mario Adorf. Il libro "La vigna di uve nere" è il quadro nitido di un mondo spietato, incentrato su regole e consuetudini ataviche, secondo cui l’uomo è padrone e dispone della vita dei suoi familiari, decide il destino della moglie e dei figli. Le vicende del romanzo si svolgono in provincia di Palermo, nei primi decenni del Novecento. Il protagonista è “un vero uomo di mafia”, Casimiro Badalamenti: costretto a lasciare le sue vigne a Giardinello e a trasferirsi a Cinisi, dopo l’uccisione del padre. Qui convive con la procace Concetta, femmina totalmente asservita ai suoi voleri (“gli era schiava nell’anima”). La donna (che si fa mantenere da Casimiro) pur di potere avere una vita agiata, accetta di vivere in un ambiente claustrofobico e soffocante, pronta ad accondiscendere ad ogni richiesta: “sei tu il padrone, il padrone mio”, dice all’uomo, per ammansirlo.
Casimiro è un uomo estremamente possessivo; non le permette di uscire mai di casa, né di frequentare nessuno, tranne l’anziana domestica, finchè di lei che per 10 anni non si mostrerà mai in paese, si finirà per cancellare anche il ricordo. La coppia avrà dei figli e dopo molti anni i due si sposeranno. A prevalere nelle relazioni di Casimiro è sempre una possessività malata: l’uomo vieta alla moglie di uscire di casa (“Se scopro che non mi ubbidisci ti spacco la faccia”); proibisce alle figlie di mostrarsi felici per non essere giudicate ragazze facili; non permette al figlio di studiare, nè di avere amici e arriva persino a tenerlo incatenato, pur di sottometterlo (“Pa’ non ti ha mandato a scuola per questo, per non perderti…Fu tutto amore”).
Il padre- padrone è ossessionato dalla paura del giudizio della gente: ha un senso distorto dell’onore in nome del quale è disposto a sacrificare persino “il proprio sangue”. I peccati di Casimiro e Concetta finiranno per ricadere inevitabilmente sui loro figli: Nicolò e Rosaria nonostante il benessere economico della famiglia verranno risucchiati in una spirale di infelicità, che come in una tragedia greca li condurrà all’incesto e alla morte: Rosaria, rimasta gravida. verrà spinta al suicidio dal padre, per salvare la famiglia dal disonore. Casimiro lucido fino alla fine non avrà mai un dubbio, un ripensamento, un’esitazione e soprattutto non si pentirà mai, piuttosto attribuirà al destino la colpa del suo fallimento come padre, dimenticando che chi semina vento raccoglie tempesta: “come uomo tutti mi rispettano e mi onorano e sa Dio se ho pagato per guadagnarmi rispetto e onoranze…Come padre sono un disgraziato. Fortuna che le figlie mi amano. Ma le femmine, che valore hanno le femmine? Porteranno un altro nome, diventeranno sangue degli estranei".
Dopo il grande successo de "La vigna di uve nere" vengono pubblicati altri romanzi "Gli affatturati" è una raccolta di racconti dedicata ai 3 figli di Livia, Italo, Maria Stella e Letizia; nel 1956 vince il premio Soroptmist. "Gli affatturati" sono individui posseduti dal vizio o da una mania, come il Marchese di Fontesecca ad esempio, personaggio esistito realmente, che per paura dei microbi viveva insieme alla moglie e alla figlia segregato dal mondo: non riceveva visite ed usciva di notte per non incontrare nessuno. Nel 1958 viene pubblicato Passione di Rosa, ambientato tra Sicilia e California; Viaggio di una sconosciuta del 1963 è un romanzo di attrazione e di amore.
Nel 1965 Livia De Stefani comincia a lavorare in una grande casa editrice; il 30 dicembre del 1966, d'improvviso muore di leucemia suo marito Renato Signorini. La produzione narrativa prosegue con "La signora di Cariddi" (1971) drammatico racconto di una donna volta al male per volontà di espiazione; "La stella Assenzio" (1975) romanzo coraggioso imperniato sul malessere esistenziale.
L’ultima fatica letteraria, "La mafia alle mie spalle" viene pubblicato un mese prima della scomparsa della scrittrice e rappresenta la più alta testimonianza del suo talento narrativo: opera autobiografica, è ambientato ad Alcamo, nelle campagne di Virzì e racconta gli incontri con i boss mafiosi, le ritorsioni, la vendetta, l’omertà. Ecco la descrizione che Livia fa di sè stessa, nel tempo in cui amministrava le sue terre: "Ero una donna tutta sola, piantata in mezzo a problemi virili, senza l'aiuto di un incoraggiamento, sia pure di un sorriso... Era una brutta bieca società maschilista ... e che fosse anche mafiosa me ne resi conto non per vie deduttive ma per quelle dell'osservazione diretta..." La scrittrice descrive la bramosia di impossessarsi delle sue terre a qualunque costo: “Nel 1954 - ricorda - per non avere rispettato i loro ordini, l’intero mio raccolto fu incendiato”.
De Stefani cerca di spiegare il fenomeno criminale nel quadro di un mondo patriarcale non ancora estinto. Viene descritto anche il suo incontro con il boss di Alcamo Vincenzo Rimi che esclama: “Pi’ esseri ‘na fimmina, buona arruggiuna!” (Nonostante sia una donna, ragiona bene!). Avrebbe poi dichiarato in una intervista: “Ho un piccolo vanto: essere stata la prima in Italia a parlare del potere mafioso come di qualcosa che comporta un carattere particolare dell’uomo: violento, chiuso, autoritario e protettivo, con il culto del proprio potere e della sottomissione degli altri (..)”. Livia De Stefani si è spenta a Roma, il 28 Marzo del 1991: Palermo purtroppo l’ha già dimenticata… .
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