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Sicilia, terra di passioni "proibite": la nobile (ex suora), l'avvocato e il loro nido d'amore

La villa fu acquistata mentre era in fase di costruzione, dai Paternò di Spedalotto, una coppia le cui nozze furono oggetto di pettegolezzi nei salotti dell’aristocrazia

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 16 agosto 2022

Villa Spedalotto a Bagheria

Villa Spedalotto è una residenza aristocratica, situata su una collina, ai margini della piana di Solanto. L’edificio, circondato da alberi di ulivi, aranci e limoni, sorge intorno ad una corte aperta; è ad un piano solo e ha un elegante pronao in stile neoclassico.

Il salone delle feste si affaccia su una grande e suggestiva terrazza, piastrellata con maioliche bianche e azzurre: un vero angolo di paradiso.

La villa venne commissionata nel 1783 da don Barbaro Arezzo all'architetto Giovanni Emanuele Cardona (o Incardona, attivo a Palermo dal 1775 al 1820), allievo di Giuseppe Venanzio Marvuglia, illustre esponente del neoclassicismo a Palermo.

Gli interni sono affrescati stile neoclassico-pompeiano e in stile impero e vengono attribuiti al pitttore Elia Interguglielmi. Nel 1790 l’edificio, ancora in costruzione, venne acquistato da Onofrio Emanuele Paternò Lombardo.

Il Paternò il 21 Settembre del 1784 aveva impalmato la matura Maria Antonia Trigona e Stagno, figlia di Melchiorre, barone di Spedalotto, ex monaca di clausura, ormai quasi quarantenne.
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Le nozze, avvenute per procura a Palermo, erano state argomento di conversazione e avevano suscitato pettegolezzi nei salotti di Catania (dove erano nati il Paternò e la Trigona) e di Palermo, dove la coppia si era stabilita.

Il marchese di Villabianca annotava nei suoi diari palermitani: “ 21 Settembre 1784 - Maria Antonia Trigona, vergine d’anni 37, baronessa erede per investitura… dei feudi di Spedalotto, Cugno, Alzacuda e Gallitano, che le danno una rendita di presso a scudi seimila annuali, sposò per procura in Palermo… il dottor Onofrio Paternò e Lombardo, cavaliere gerosolimitano di giustizia, novizio ricevuto nell’ordine fra il 1771, ed uno dei figli minori del fu Francesco Paternò e Paternò Castello, barone di 2 Raddusa e più volte giudice del tribunale della Regia Gran Corte e di Anna Maria Lombardo e Lucchese sua moglie, oggi vivente.

Contrasse la dama cotali nozze per i servigi resile dal detto Paternò, che come dottore in legge e di lei avvocato le fece vincere l’impegno in judicio di spogliarsi di monaca professa, qual era prima".

La storia di Maria Antonia sembra uscita dalla penna di un fantasioso romanziere ottocentesco: la fanciulla nasce nel 1747 e dopo la morte dei propri genitori e della sorella Maria, sposata al marchese di Canicarà, rimane unica ereditiera.

All’età di 9 anni viene trasportata a viva forza, contro la sua volontà, tra pianti e singhiozzi di disperazione, nel monastero della Santissima Trinità di Piazza Armerina, diocesi di Catania, per volontà dello zio Vincenzo (coadiuvato da un certo don Paolo Palà paggio di casa) e dell’altro zio, don Antonio, che è il maggiore dei fratelli viventi e dunque persona autorevole, preposta ad avere l’ultima parola su ogni faccenda.

La giovinetta viene subito affidata nel monastero a tre sue zie paterne: Donna Rosa Maria, Donna Maria Geltrude e Donna Maria Prudenza.

Le anziane monache non la perdono d’occhio un solo istante ed esercitano pressioni quotidiane affinchè Maria Antonia prenda i voti: le zie infatti ripetono più volte alla fanciulla che ella morirà se deciderà di uscire dal monastero e tornare “al secolo”, nel mondo.

Raggiunta l’età propizia Maria Antonia viene costretta a “professarsi” e a fare rinunzia di tutti i suoi feudi in data 12 Luglio 1763 ma già all’indomani della solenne monacazione la fanciulla appare pentita e confida a Palma La Rocca e Mara Serpentino le due converse che l’assistono quotidianamente, che è convinta di essere stata raggirata.

Il tempo passa anche dietro le sbarre della clausura e una volta morte due delle tre zie monache, e passati a miglior vita anche i fratelli Trigona, la ormai quasi quarantenne suora decide di "pensare alla sua coscienza" e manda un ricorso a Catania a Don 3 Giuseppe Riccioli, vicario generale del Vescovo Deodato ed è qui che entra in gioco l’avvocato Paternò.

“Assistita dall’abile avvocato dr. Onofrio Paternò, suor Maria Antonia Trigona vince la sua lunga causa di svestizione…eredita feudi considerevoli. Ed eccole ronzarle attorno vagheggini e pretendenti…Ella ha seimila scudi l’anno e quei seimila fan gola a giovani e a uomini maturi. Donna Maria Antonia però “Sta come torre ferma che non crolla” perché è innamorata pazza del suo avvocato, il quale dimentica i begli occhi della marchesa Flavia Mina Drago…”. Scrive Giuseppe Pitrè.

Alcuni ostacoli, si frappongono alla felicità tra Onofrio e Maria Antonia: i tanti spasimanti che all’improvviso si fanno avanti, attratti dalla ricca dote della baronessa (tra di essi un cavaliere di casa Trigona da Piazza, dei marchesi della Foresta, che cerca di sviare la baronessa dalla volontà di sposare il Paternò) e la marchesa Drago, vedova, che l’avvocato Paternò avrebbe dovuto sposare e che all’improvviso viene lasciata per la Trigona.

La professione viene dichiarata nulla il 19 Luglio 1784. (Manoscritto Civica ed. U.R.). Il 31 Agosto 1784 Maria Antonia Trigona e Stagno prende l’investitura del feudo di Alzacuda, (ultimo possessore era stato don Pietro Paolo Trigona, investito nel 1770), del feudo di Gallitano, del feudo di Spedalotto e Cugno, stante la sentenza di nullità della professione profferita dalla corte vescovile della città di Catania a 28 di Luglio del medesimo anno.

L’amore trionfa e il 21 Settembre 1784 Maria Antonia Trigona e Stagno convola a nozze con il suo Onofrio. “Avvertasi però che la dotazione fatta al marito non fu che in poche migliaia di scudi…” Scrive il marchese di Villabianca, alludendo che, nonostante i maligni pettegolezzi, di matrimonio d’amore si era trattato e non d’interesse e poi conclude: “il cavaliere e dottore Paternò con queste fortunate nozze fu fondatore in Palermo di un novello maggiorasco nella sua illustre famiglia.

Il che è tutto d’attribuire al merito e alla virtù dell’avvocato ma anche alla benevolenza della sorte… Don Nofriu Paternò, chi da dutturi/ Di Spitalottu divintau baruni".

Anche la baronessa vedova d’Angelo scrisse dei versi per le nozze dell’insolita coppia e il pometto fece il giro degli eleganti salotti di Palermo.

Middi livreri supra ‘na cunigghia/ Quali s’era a Diana dedicata/ Cci currevano appressu a parapigghia/ Ed idda intantu si stava ammacchiata/ Ma un guzzareddu (oh chi gran maravigghia!)/ Cu tuttu chi ‘na lebbra avia appustata/ Lassa la lebbra e c’un sautu la pigghia/ E fici a tutti ‘na cutuliata.

Ovvero mille levrieri sopra una coniglia che si era dedicata a Diana correvano a parapiglia dietro ad essa la quale se ne stava ammacchiata (chiusa in monastero).

Ma un cagnolino (o gran meraviglia!) nonostante che tenesse la posta ad una lepre, lascia la lepre e con un salto prende la coniglia e fa a tutti una canzonatura (lascia tutti con un palmo di naso). La traduzione è di Giuseppe Pitrè.

Nonostante Maria Antonia fosse piuttosto attempata, la coppia mise al mondo ben sei figli, tra i quali Giuseppe Paternò di Spedalotto (1794-1874) Senatore del Regno e Vincenzo, pretore di Palermo.

Villa Spedalotto oggi è proprietà privata. Nel 1991 è stata location d’eccezione per alcune scene del film “Johnny Stecchino” di Roberto Benigni.
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