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Sorge nel cuore di Palermo e fu teatro di una rivolta: la storia (tragica) di Palazzo Starabba

Edificato dall’avvocato Giuseppe Maria Jurato passò successivamente alla famiglia dei marchesi di Rudinì. Ospita uno dei Quattro Cantoni di piazza Villena

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 29 settembre 2022

Palazzo Starabba a Palermo

Nel cuore di Palermo, all’incrocio tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele, sorge Palazzo Starrabba dei Marchesi di Rudinì, che ospita uno dei Quattro scenografici Cantoni di piazza Villena. L’edificio venne edificato intorno al 1760 da Giuseppe Maria Jurato o Giurato, su un gruppo di antiche case appartenenti a un precedente proprietario.

Don Jurato era avvocato fiscale della Regia Gran Corte del regno di Sicilia e pur godendo di una certa notorietà, non poteva vantare origini aristocratiche, era un parvenù: per il giurista non avere sangue blu nelle vene rappresentava un grande cruccio.

Scrive Rosario La Duca: “Jurato, uomo di legge, si era fatto da solo, arrampicandosi poco a poco…Era divenuto ricco perché, giunto a Palermo da giovane avvocato, aveva via via acquisito un’ottima clientela, dato che a lui ricorrevano molti titolati del regno nelle loro frequenti beghe e liti, sapendo che riusciva a ben destreggiarsi nella farragine delle leggi di quel tempo” (Palermo passeggiata).
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L’avvocato avendo saputo che gli eredi del barone d’Angelo possedevano un corpo di case basse in via Maqueda, vicino ai padri crociferi, ad angolo con i Quattro Cantoni, era riuscito ad acquistarlo e aveva deciso di fare edificare lì un palazzo di rara bellezza e raffinata eleganza, così lussuoso da far sfigurare l’edificio che stava di fronte, voluto dal ricchissimo Giuseppe Merendino, che poi sarebbe appartenuto a Giuseppe Costantino, maestro razionale del Regno.

Al piano terra erano stati realizzati i magazzini, nell’ammezzato gli alloggi della servitù, al primo piano vi era il piano nobile e all’ultimo il piano di residenza dei cadetti della famiglia. Era stato utilizzato marmo rosso di Custonaci per l’imponente scalone.

Al piano nobile, vi erano e tre saloni di rappresentanza, con grandi specchi e volte arricchite da affreschi e decorazioni a stucco. Racconta il Villabianca nei Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX “ch’egli (Jurato) aveva fabbricato in uno de’ cantoni delle Quattro Cantoniere una bellissima casa, con prospettiva di vero palazzo nella cui porta vi appose il seguente motto: Remis et non velis, volendo con ciò denotare ch’egli aveva fatto cotale fabbrica col tempo ed a poco a poco, e spezialmente col mezzo de suoi travagli legali.

In mezzo poi del balcone principale, ch’è ornato di due colonne, fu posta una lapide con questa iscrizione. Ioseph M. Iurato, patritii panormitani suorum ad usum MDCCLV (per uso di Giuseppe M. Iurato, patrizio palermitano e dei suoi, 1755).

Al posto dello stemma, sul portone era stata apposta dunque l’iscrizione Remis non velis (con i remi e non con le vele) che stava a significare che la dimora di Jurato era stata costruita lentamente e con faticosi, leciti guadagni, frutto di duro lavoro e di grandi doti personali, a differenza del prospiciente palazzo Merendino elevato in breve tempo, senza fatica, da chi ,nascendo aristocratico, aveva ereditato senza merito titolo e patrimonio.

Non mancarono le critiche. L’abate Delfino scrisse alcuni versi in cui ridicolizzava la superbia dell’avvocato e lo stesso fece Don Giuseppe Abbate ma ci fu anche chi prese le difese di Don Jurato.

Cominciarono le pasquinate e i cartelli anonimi: uno di essi che cambiava il senso della prima parte della scritta, recitava: “Remis non velis tentat pirata rapinas” perché maliziosamente affermava che coi remi e con le vele il pirata tenta le sue ladronerie; con le vele si fa scoprire da lontano mentre con i remi può avvicinarsi di nascosto e depredare la costa.

In altre parole la città lo accusava di aver accumulato il suo tesoretto in maniera poco onesta, imbrogliando o addirittura rubando; ma, aggiunge il Villabianca, Remis non velis tentat pirata rapinas, “Questa è pasquinata di lingua maledica, che inveisce contro tutti li dottori in generale”.

Don Giuseppe Maria Jurato morì nel 1772 e venne sepolto nella chiesa di Santa Ninfa, dove ancora oggi se ne può ammirare il monumento funebre, eseguito da Filippo Pennino su disegno di Giuseppe Venanzio Marvuglia. Oggi invece sul portone d’ingresso del palazzo non c’è più traccia delle iscrizioni incriminate, ma vi è lo stemma degli Starabba, marchesi di Rudinì, che acquistarono il palazzo nell’ Ottocento.

La dimora fu data alle fiamme e devastata nelle tragiche giornate della rivolta del Sette e mezzo, nel settembre del 1866. Antonio Starrabba, marchese di Rudinì e principe di Giardinelli, era il più giovane sindaco che Palermo avesse mai avuto.

Essendo stato chiamato, dal 1863, a ricoprire l'importante ufficio a soli 24 anni, Il marchese di Rudinì, noncurante dello scempio subito per ritorsione sul suo palazzo, cercò con coraggio di fronteggiare e reprimere la ribellione provocata da elementi di varia matrice politica che sfruttarono il malcontento popolare per l'introduzione nell'isola della coscrizione militare, per l’eccessiva imposizione fiscale, per l'incameramento dei beni delle corporazioni religiose.

Pochi giorni dopo lo scoppio della sollevazione arrivarono i rinforzi militari guidati dal generale Raffaele Cadorna, che represse la ribellione nel sangue entro il 22 settembre 1866.

Scriveva Giuseppe Ciotti nei suoi Cenni storici sugli avvenimenti di settembre 1866: “Si apersero un varco a traverso le mura, penetrarono nella ricchissima dimora del sindaco, ne sfondarono il portone all’irrompere della folla, e poi, a spezzare spietatamente quella splendida mobilia, a fare a brani la tapezzerie, a bruciare le scritture, ed a rubare con universal piglia piglia.

Una popolazione di ladri: uomini, vecchi, donne e fanciulli, armati ed inermi, con grida di gioia, di ira, rovesciavasi a prendere le argenterie, le biancherie, i mobili, gli arnesi più usuali, perfino le imposte, Volevano dar fuoco al palazzo, diroccare quel quarto dei Quattro Cantoni che appartiensi ai Rudinì.”.

Il marchese di Rudinì aveva sposato la nobildonna francese Maria de Barral, che gli aveva dato un figlio, Carlo, ed era in attesa di un secondo erede: sarebbe nata una bambina, Alessandra, che una volta adulta sarebbe diventata l'amante di D'Annunzio e in seguito, una volta abbandonata, monaca carmelitana.

La giovane marchesa, incinta e con un neonato in braccio fu costretta a salvarsi passando per una finestra. Come è riportato nel saggio di Mauro De Mauro dal titolo "Sette giorni e mezzo di fuoco a Palermo" lunedì 17 settembre 1866 dei «guerriglieri mossero dal convento dei Crociferi e camminando sui tetti raggiunsero il palazzo del sindaco Rudinì.

Calatisi attraverso i lucernari lo saccheggiarono e rovesciarono in strada mobili e suppellettili che servirono ad erigere una barricata all' altezza della chiesa di San Giuseppe a 40 metri circa dal municipio. La signora di Rudinì, si rifugiò in casa dei vicini».

Come si apprese, qualche giorno dopo, la povera marchesa, in conseguenza dello spavento, perse la ragione e a seguito della malattia mentale venne ricoverata in una clinica psichiatrica. Malgrado il saccheggio del palazzo e la pazzia della moglie, il sindaco fronteggiò con fermezza l'imperante caos cittadino.

Dopo il succedersi di vari proprietari l’edificio fu acquistato nel 1925 dall’istituto Nazionale delle Assicurazioni che tra il 1979 e il 1982 ha effettuato dei lavori di restauro. Per alcuni anni è stato sede di rappresentanza e di uffici del Comune di Palermo. Recentemente il palazzo è stato aperto alle visite grazie alla manifestazione "Le vie dei Tesori".
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