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Tra boschi fantastici e bolle di sapone: "La grande danza" non è un balletto comune

Al Teatro Massimo di Palermo ha debuttato "La grande danza": spettacolo in tre coreografie di Gentian Doda, Nacho Duato e Jiri Kylián in scena fino a sabato 5 maggio

  • 29 aprile 2018

Foto di scena di "Sechs Tänze" (foto Franco Lannino)

Chi, come me, ha avuto la fortuna di essere ieri sera al Teatro Massimo non ha assistito solamente a un solo spettacolo ma a tre diversi modi di interpretare la danza contemporanea.

Questo trittico è introdotto dal balletto “Si lo cual no” dell’albanese Gentian Doda, classe 1987, dal 2015 Primo Maître de ballet dello Staatsballet di Berlino.

Il sipario si apre e una lama di luce orizzontale squarcia il buio dello spazio scenico. La scena di Susana Riazuelo è semplicissima: costituita da sei cavi d’acciaio che tagliano verticalmente lo spazio e che consentono allo spettatore di percepire sin da subito una atmosfera industriale.

I costumi di Jaime Roche de la Cruz sono essenziali: pantaloni neri e magliette dai colori cupi. I nove ballerini sono fermi, la schiena poggiata sul palcoscenico le gambe in aria, quasi fossero crocifissi sottosopra.

Uno alla volta rotolano sul palco e danno vita ad una rappresentazione della brutalità del nostro vivere quotidiano: ripetono ossessivamente i loro gesti, si trascinano sul palco in gruppo quasi fossero un gregge, immagine questa che ha richiamato alla mia memoria quella scelta da Chaplin in “Tempi moderni” per descrivere gli operai che entrano in fabbrica.
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Illuminati dalle bellissime luci, quasi caravaggesche, di Nicolás Fischtel i ballerini si trasformano infine in ingranaggi: le musiche di Joaquín Segade, ma forse sarebbe più corretto definirle suoni, esaltano e accompagnano questi movimenti. Tra i ballerini si distinguono per bravura e presenza scenica Gaetano La Mantia e Vito Bortone.

Segue il balletto “Duende” dello spagnolo Nacho Duato, attuale direttore artistico dello Staatsballet di Berlino. L’ambientazione è completamente diversa, basta proiettare sullo sfondo nero l’immagine verde di alcune foglie ed ecco che Walter Nobbe ha creato per noi un bosco fantastico dove si muovono delle creature magiche. I sobri costumi di Susan Unger lasciano a torso nudo i ballerini/elfi e vestono le ballerine con tunichette corte, trasformandole in fate silvane.

Le musiche di Claude Debussy, la Pastorale e il Finale della Sonata per flauto, viola e arpa del 1916, eseguite dall’orchestra diretta da Alessandro Cadario evocano quell’ambiente simbolista francese in cui ben si colloca il Duende: quel fascino ammaliatore, a volte venato di tristezza e inquietudine, quell’estro ispiratore, creativo.

Federico Garcia Lorca per spiegare questo concetto dice “non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto” e cita a sua volta Wolfgang Goethe che parla di un “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”.

Le quattro scene che compongono questo balletto riescono a farci percepire questo mistero: i ballerini disegnano nell’aria triangoli e quadrati quasi a volere spiegare un legame segreto tra la natura che ci circonda ed il nostro essere razionali. Molto bello il trio iniziale con la fluida Yuriko Nishihara, Jessica Tranchina e Vincenzo Carpino che tornerà ad essere protagonista anche nello splendido finale ad effetto.

Sul palco alla fine vengono giustamente chiamati insieme al direttore d’orchestra anche Rosolino Bisconti, flauto, Gaspare D’Amato, viola, e Valentina Rindi, arpa.

Chiude lo spettacolo il balletto “Sechs Tänze” del ceco Jiři Kylián e verrebbe voglia di dire dulcis in fundo. La scena è inesistente, una parete nera contro la quale si stagliano le figure dei ballerini ben vestiti di bianco con calzoni, sottovesti e biancheria del Settecento, tutti indossano parrucche incipriate, gli uomini hanno il codino.

Le luci concepite dallo stesso coreografo e realizzate da Joop Caboort sono questa volta calde. La musica è quella di Wolfgang Amadeus Mozart: si tratta delle Deutsche Tänze KV 571. Potreste fin qui essere indotti a pensare ad un balletto più “classico” e invece no.

La danza è assolutamente moderna, i movimenti contemporanei, il contrasto tra musica, costumi e gesti è esilarante. La contrapposizione tra maschile e femminile, tra crinoline rigide che si muovono su ruote e spade che fendono l’aria, è risolta in maniera divertente fondendo insieme i due aspetti in un unico essere.

Ci si burla, si gioca, l’autoironia sta alla base di tutto. I ballerini sono svelti, a tratti si trasformano in mimi e diventano improvvisamente galanti. Le parrucche, una volta colpite, danno vita a nuvole di cipria. Kylián ha colto perfettamente l’aspetto ludico della musica mozartiana e lo ha tradotto in una gestualità moderna.

L’esperimento è riuscitissimo. Il corpo di ballo è particolarmente ispirato e il pubblico si diverte e ride durante lo spettacolo. Nel finale una pioggia di bolle di sapone investe i ballerini quando già scrosciano gli applausi.
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