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Un antico maniero in Sicilia infestato da due fantasmi: la leggenda dell’infelice Aldonza

Un triste delitto. Vi raccontiamo la storia di una vicenda oscura, fatta di onore, denaro e morbosa gelosia e manipolata per coprire la perdita di prestigio politico

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 3 aprile 2023

Molto tempo fa, il castello Barresi di Militello era un maestoso edificio: nel 1410 offrì ospitalità alla regina Bianca di Navarra, nella sua perigliosa fuga dalle insane voglie del Gran Giustiziere del Regno Bernardo Cabrera.

Oggi dell’antico maniero rimane solo una torre, un luogo infestato - a quanto riferisce qualche anziano del paese - da due fantasmi, due anime in pena che dopo oltre cinque secoli non trovano pace e si aggirano nella notte, lamentando la loro innocenza: la nobile Aldonza Santapau e il vassallo Piero Bellopede.

La leggenda dell'infelice Aldonza, caduta nelle grinfie del marito, uno spietato Barbablù, è nota a Militello in numerose varianti ed è stata ripresa negli ultimi tre secoli, da diversi scrittori siciliani, tra i quali ricordiamo Mario D. Ventura ("Aldonza Santapau", 1973) e Giuseppe Lo Greco ("Antonio Barresi e Aldonza Santapau", 1997); ma dobbiamo a Filippo Caruso (1658-71) il più esteso racconto scritto su questa triste vicenda d’onore e sangue.
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Aldonza, figlia di Raimondo barone di Licodia, leggiadra e ingenua fanciulla, riteneva di essersi posta in buone mani, sposando il barone Giovanni Battista Barresi, barone di Catalfaro.

Un brutto giorno, la nobildonna venne però accusata di infedeltà: i fratelli del barone, Nicolò e Luigi Barresi, inviarono una lettera a Giovan Battista (che era di ritorno da un lungo viaggio in Spagna), raccontando di una tresca, sorta in sua assenza, tra la giovane e bella Aldonza e un vasallo, un certo Piero Caruso detto Bellopede "perché nelle danze facea girare graziosamente il piede” (Flandina).

L’accusa era dettata dalla volontà dei due Barresi di vendicarsi della cognata per motivi economici, la sventurata signora si era infatti rifiutata di concedere loro del denaro, sapendo che entrambi erano dediti ai peggiori vizi. Il barone tornò in fretta a Militello, ferito nell’onore: il suo cuore, che ardeva d’ira e d’odio, desiderava solo vendetta.

Per prima cosa fece imprigionare Bellopede nei sotterranei del castello e dopo avere a lungo torturato il vassallo lo fece uccidere, ordinando di gettarlo giù da una torre. Il corpo martoriato di Bellopede venne legato alla coda di un cavallo e venne trascinato per tutta Militello, fin sotto casa della madre.

L’anziana donna, straziata dal dolore, fu costretta dal perfido Barresi a cantare e a ballare al suono di un cembalo un lamento funebre, che si concludeva con questa maledizione: "Ad ogni santu veni la su festa, a tia Signuri veniri ti voli”, ossia per tutti, prima o poi, arriva il tempo di morire e dover rendere conto a Dio del proprio operato.

Neanche Aldonza venne risparmiata dalla furia cieca del marito, assetato di sangue e acceso di folle gelosia per il sospetto d’esser stato tradito durante una delle sue assenze dal regno: il barone “trasformavasi ben tosto in feroce tiranno contro la donna già amata.

Le segrete del castello accolgono adunque la povera Aldonza ed ecco una notte schiudersi la tetra porta, ecco il fiero barone, seguito dai suoi sgherri, penetrare nell’oscura prigione e spinto dall’ira trascinare dietro a sé l’infelice e consegnarla alla tortura.” (Flandina)

Ignoriamo se esistessero e in tal caso quali fossero le prove in possesso del barone, in ogni caso ad Aldonza non venne concessa nessuna indulgenza: venne impiccata con un lenzuolo e poi venne sepolta in segreto sotto il portico della chiesa di Santa Maria La Vetere.

"Ahi che Aldonza sovviemmi alma Donzella /che del suo sangue l’herbe/ tingendo e i cor degli ottimi pastori/ Immacolata e pura al ciel sen gio", scriveva Pietro Carrera nel 1623, certo dell’innocenza della nobildonna.

I Santapau erano un clan influente e la morte di Aldonza non era un crimine che potesse esser facilmente perdonato dalla famiglia: il sangue di Aldonza doveva essere lavato con altro sangue.

Barresi aveva firmato la sua condanna a morte. I Santapau cercarono di sopprimere il barone mentre pregava nella chiesa di Sant'Antonio Abate, ma l’agguato fallì; l’appuntamento con la morte era tuttavia solo rimandato.

Il Barresi venne ucciso da lì a poco a Castrogiovanni (oggi Enna) dai due fratelli Santapau, che riuscirono a tagliargli la testa e a portarla - ancora grondante sangue - come trofeo, al padre Raimondo.

I Santapau furono costretti a fuggire e vennero esiliati dal Regno, ma secondo la leggenda ottennero in seguito il perdono.

Diversi studi – tra cui quelli di Flandina nel 1878 e di Majorana nel 1923 - hanno dimostrato che la vicenda della nobile e infelice donna Aldonza non è solo una diceria di paese; inoltre è possibile affermare che i fatti sono andati diversamente da come li raccontava nel Seicento Filippo Caruso.

Antonio Flandina pubblicò nel 1878 su “Archivio storico siciliano”, “Donna Aldonza di Santapau. Notizie cavate da documenti inediti”: uno studio che grazie ai documenti inediti scoperti presso l’Archivio della Cancelleria del Regno fu il primo a far luce sulla vicenda di Aldonza: “I documenti da me rinvenuti…valgono infatti a raddrizzare e porre nella debita luce un avvenimento, le di cui circostanze erano state sinora falsamente delineate e colorite”.

Flandina scoprì innanzitutto che il fatto di Militello era avvenuto nel 1473 e non intorno al 1500-1520 come scriveva il Caruso e dunque ad uccidere Aldonza e Piero Bellopiede non era stato Giovan Battista, come riportato nella leggenda, ma suo padre Anton Piero Barresi.

Il Flandina scoprì inoltre che i Santapau, risaputa l’intenzione del barone di voler uccidere Aldonza, dopo averla imprigionata, avevano chiesto aiuto al vicerè Ximenez.

Questi aveva intimato al barone di consegnare Aldonza, per poterla condurre al monastero delle benedettine di Catania e per affidarla alla badessa, fatto divieto assoluto di vedere il marito e i familiari; se il Barresi si fosse opposto sarebbe incorso nella confisca dei beni e nella pena capitale.

L’intervento del vicerè purtroppo era arrivato troppo tardi perchè Aldonza era ormai scesa nella tomba. Dopo il delitto, a conclusione del processo a suo carico, il barone era stato condannato alla deportazione nell’isola di Malta.

La punizione non era sembrata abbastanza dura alla famiglia Santapau che aveva ucciso per vendetta Nicolò - il fratello del Barone - ritenuto uno degli istigatori del delitto, e aveva malmenato i vassalli di scorta che volevano opporre resistenza. Del delitto di Nicolò fu accusato Giovanni Ponzio Santapau, che fuggì e fu sottoposto al sequestro dei beni e all’esilio volontario.

Nell’Agosto 1475 Anton Piero Barresi ottenne l’indulto per il delitto della moglie grazie al pagamento di un’ingente somma di denaro, ben 500 onze d’oro. Il barone si riposò in seconde nozze nel 1479 con Damiata Moncada, da cui ebbe 10 figlioli (da Aldonza non aveva avuto eredi). Anche i Santapau avevano intanto ottenuto il perdono ed erano rientrati in Sicilia nel 1478. Erano stati graziati per gli aiuti prestati al re Ferdinando di Castiglia, combattendo in Spagna a Burgos e a Granada.

La duplice grazia allentò le tensioni tra le due famiglie baronali e mise fine alla faida. Quanto all’innocenza o alla reità di donna Aldonza: l’adulterio non risulta provato nelle tavole processuali.

Lina Scalisi nel 1995 ha ripreso il lavoro della seconda metà dell’Ottocento di Flandina e ha cercato di ricostruire il contesto e le motivazioni che portarono nel Seicento alla creazione della leggenda. La studiosa afferma che la leggenda di Aldonza fu ideata da Filippo Caruso, uomo dei Branciforte, parenti e successori dei Barresi nel feudo Catalfaro.

Il Caruso avrebbe messo in atto una manipolazione genealogica storiografica: avrebbe attribuito l’omicidio commesso da Anton Piero al figlio Giovan Battista, con lo scopo di coprire, con una vicenda d’onore, la perdita di prestigio politico subita da Giovan Battista Barresi, che resosi protagonista di una serie di rivolte contro la corona Spagnola, era morto con disonore in carcere.

L’intento politico della leggenda era quello di sostenere la tradizionale lealtà dei Branciforte nei confronti della corona, in un momento in cui Giuseppe Branciforte, che nel 1660 sarebbe divenuto signore di Catalfaro, correva il rischio di essere condannato per un ennesimo atto di rivolta contro la corona spagnola.

Ripristinata finalmente la verità storica, affermava Flandina: "Tolto il velo della leggenda e del romanzo, possiamo oggi registrare nella storia nostra una pagina di sangue, che è pure così importante a dipingerci le condizioni della società siciliana nella seconda metà del XV secolo".
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