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Una bambina fantasma che torna ogni anno in città: il terremoto "invisibile" di Messina

Il terremoto di Messina del 1908 è un terremoto invisibile, di cui si parla poco. E anche se sono trascorsi 112 anni da quella tragedia, in esso si annida un mistero che fa paura

  • 19 maggio 2020

Il terremoto di Messina in una foto d'archivio

Ci sono terremoti e terremoti. Essi variano per grado e per scala di magnitudo, ma anche per il racconto che di essi ha dato il tempo e per le sue conseguenze sulla natura del paesaggio e sulla vita stessa di chi li ha subiti. I terremoti, insomma, contengono una serie di risonanze: non nel senso delle variabili sismiche, ma delle interpretazioni culturali.

Delle differenze fra i terremoti, in Sicilia, si potrebbe scriverne un curioso libello a metà strada fra la critica di costume e il resoconto storiografico. Ci sono i terremoti perpetui, che insistono ancora nella rete urbana delle città: come a Santa Margherita di Belìce, laddove finisce il paese e comincia il terremoto, senza soluzione di continuità. Pare non voglia sottrarsi ad essere lì, minaccioso ma silente, invecchiato come le sue rovine.

Ci sono i terremoti presumibili, che modificano per intero la vita sociale: come a Salaparuta, paese taciturno e meravigliosamente assolato, la cui modernità di linguaggio architettonico lascia presumere una frattura della storia, repentina e violenta. Ci sono i terremoti paralizzati, che non conoscono null’altro che il loro lentissimo declino: come a Poggioreale vecchia, dove i motti del fascismo sono ancora visibili sulle pareti e nella piazza, scenografia straordinaria della Sicilia, fa eco solo il murmure dell’acqua di un lungo abbeveratoio.
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Ci sono i terremoti esibiti, che la comunità richiama a futura memoria: come a Gibellina vecchia, col biancore accecante del Cretto di Burri che toglie il fiato, nel sentimento panico di una natura che laddove non è bellezza, è sempre orrore. Ci sono i terremoti dell’anima, che sventrano le comunità: come quei poveri cristi che ancora non hanno lasciato le loro baracche, dal 14 gennaio 1968, e lì stanno abbarbicati alle abitudini della morte civile.

E poi ci sono i terremoti invisibili, che mutano radicalmente la morfologia urbana di un luogo, e scompaiono proprio nel momento in cui eseguono la propria opera, consegnando la loro esistenza a una data o a qualche foto in bianco e nero. Ecco, il terremoto di Messina del 1908 è un terremoto invisibile.

Di Messina si parla poco. Il tempo trascorso è tale che il terremoto ha finito per diventare non visibile, sostituito dalla nuova Messina, che non è Messina Nuova – come Gibellina Nuova – ma semplicemente Messina. E se anche sono trascorsi 112 anni da quell’evento, in esso si annida un mistero che fa paura. Ma andiamo in ordine con la storia, secca e dura come un bollettino dei caduti in guerra.

Erano le ore 5:20:27 del 28 dicembre 1908: circa metà della popolazione della città siciliana perdette la vita. Per numero di vittime, insieme con quelle di Reggio Calabria, è la più grave catastrofe naturale d’Europa e il disastro naturale di maggiori dimensioni che abbia colpito il territorio italiano in tempi storici. L’epicentro fu registrato nel comune di Reggio Calabria (tra Archi e Ortì inferiore), e l’intensità fu talmente violenta che scosse di terremoto, inferiori, si avvertirono in Basilicata, in Puglia e nel Molise.

Messina fu colta nel sonno, e di lì a poco il terremoto interruppe tutte le vie di comunicazione (strade, ferrovie, telegrafo), danneggiò i cavi elettrici e le tubazioni del gas, sospese l’illuminazione stradale, e con lo strascico di un maremoto, causato con molta probabilità da una frana sottomarina, l'evento devastò Messina causando il crollo del 90% degli edifici. Una strage; e non la prima, perché già nel 1783 la città era stata interessata da un terremoto che l’aveva in gran parte distrutta.

Lo ricorda Salvatore Quasimodo, che all’epoca aveva sette anni, trasferito a Messina tre giorni dopo il terremoto, perché il padre capostazione fu chiamato lì a dirigere il traffico ferroviario. Per mesi visse su due vagoni merci, e successivamente rievocò l'esperienza nella poesia Al Padre: «Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d'uragani /e mare avvelenato».

Lo ricorda anche Pietro Mancini, esponente socialista che guidò alcune squadre di soccorso a Reggio Calabria: «Le descrizioni dei giornali sono al di sotto del vero. Nessuna parola, la più esagerata, può darvene l’idea. Bisogna avere visto. Immaginate tutto ciò che vi può essere di più triste, di più desolante. Immaginate una città abbattuta totalmente, e voi avrete un'idea approssimativa di che cos'è Reggio, la bella città che fu».

Ma la città maggiormente sinistrata fu proprio Messina: a titolo d’esempio, dal totale crollo del cinquecentesco Ospedale Civico, su circa 200 tra pazienti, medici e infermieri, vi furono solo 11 superstiti. Il grande storico Gaetano Salvemini, dal 1901 professore di storia contemporanea presso l’Ateneo messinese, perse la moglie, i cinque figli e la sorella, rimanendo l’unico sopravvissuto di tutta la sua famiglia.

E non mancarono, nella tragedia, gli episodi di sciacallaggio, la trasfigurazione di una barbarie senza tregua: una banda di detenuti evasi, scampata al crollo delle carceri giudiziarie, prese di mira le rovine della Banca d’Italia e del Palazzo dei Tribunali allo scopo di penetrare nel caveau della prima e di bruciare l’archivio del secondo; ancora, alcuni operai vagarono per giorni, con macabra ostinazione, cercando di recuperare dai cadaveri monili e denti d’oro. Una tragedia.

Ma quali le cause del terremoto? A fronte di quelle più note, rubricate dalla sismologia ufficiale, vi sono quelle affidate al mistero della fede, anch’esse dotate di una loro (inquietante) prova di verità. Hanno l’autorevolezza di un santo, Annibale Maria Di Francia, messinese, fondatore delle congregazioni dei rogazionisti del Cuore di Gesù e delle figlie del Divino Zelo.

Come le riporta Roberto de Mattei in un suo libro, datandole addirittura il 16 novembre 1905, il santo disse: «Senza mezzi termini, senza reticenze e timori, io vi dico, o miei concittadini, che Messina è sotto la minaccia dei castighi di Dio: essa non è meno colpevole di tante altre città del mondo che sono state distrutte dal fuoco o dalle guerre o dai terremoti: deve dunque aspettarsi da un momento all’altro di subire anch’essa la stessa sorte».

Precognizione, dirà qualcuno, o meno sontuoso malaugurio. Sia come sia, un mistero conclude questa storia, ed è un mistero che fa davvero paura. Pare che ogni anno, il 28 dicembre, i morti del terremoto tornino in città sotto forma di fantasmi.

Due anni fa, addirittura, era circolata la notizia di un avvistamento con la foto di una bambina, emaciata e con gli occhi sbarrati, nell’angolo di una finestra coperta da alcune grate. Certamente un abile fotomontaggio, ma non del tutto casuale; perché Messina è una città misteriosa, che conserva memoria di moltissime apparizioni proprio legate a quel tragico evento, dacché la morte violenta – si sa – non da pace ai morti.

A farne esperienza, pare, un gruppo di ragazzi che dentro un casale abbandonato, dove si erano introdotti per recuperare un pallone, hanno proprio visto il fantasma della bambina. Sembra fosse spaventata e in cerca d’aiuto, ma non ostile. Altri ancora riferiscono dell’avvistamento di una bellissima ragazza vestita con abiti del primo novecento che si approssima ai vivi piangendo disperata, ancora il 28 dicembre; qualcuno sostiene sia lo spirito di una giovanissima deceduta durante il terremoto, poche settimane prima del suo matrimonio, scavando tra le macerie della casa del fidanzato.

È una storia d’amore, cioè del mistero di un’anima; e questa infelice ragazza che invoca la ricerca del suo disperato amore sembra quasi vera, nella cornice sbiadita di una leggenda, perché richiama il pianto delle tante morti accadute davvero quella notte, alla fine di un anno che segnò la fine di un vecchio mondo, a memoria di quanto deve essere stata bella Messina prima del terremoto.
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