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Chi era "Don Fifì", il medico che tradusse Dante: com'è la Divina Commedia in siciliano

In occasione del "Dantedì" vi facciamo riscoprire il siciliano, medico e appassionato di letteratura, autore di un lavoro infaticabile sull'opera del Sommo Poeta

Marco Giammona
Docente, ricercatore e saggista
  • 25 marzo 2023

Dante Alighieri

Medico e letterato. Un binomio originale, non comune ma alquanto prezioso. Su queste fondamenta poggia lo straordinario lavoro di Filippo Guastella.

Fratello del più famoso Cosmo (filosofo) e conosciuto da tutti come “Don Fifì”, nasce a Misilmeri da Vincenzo e da Marianna Piazza il 4 agosto 1862. Conseguita la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Palermo, esercitò la professione di medico condotto e successivamente quella di ufficiale sanitario.

Fortemente impegnato nel campo sociale e culturale si occupò anche attivamente dei problemi del suo paese: fu, infatti, fondatore e presidente per trent’anni della cooperativa agricola di Misilmeri, promotore del comitato cittadino per innalzare il monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale, nonché direttore nel nascente circolo culturale.

Attivo anche in campo politico, rivestì sempre ruoli di prim’ordine nell’amministrazione comunale, nel 1923 dopo essere stato nominato con Regio Decreto prima Cavaliere Ufficiale della Corona d’Italia, diventò Commendatore della Corona d’Italia.
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La sua passione per la scrittura si mostrò già nel 1911, quando pubblicò un’ampia relazione sui tristi fatti relativi al “Colera a Misilmeri” di quell’anno, cui egli stesso fu protagonista in qualità di medico condotto.

Guastella stilò un’analisi accurata e particolareggiata di come l’epidemia si manifestò e si diffuse nel centro urbano cittadino colpendo ben 56 individui tra uomini e donne.

Il suo lavoro, che va oltre l’aspetto medico, cercò di studiare il fenomeno trovando correlazioni e cause anche attraverso un quadro di tipo urbanistico-antropologico, legato strettamente alle scarse condizioni igienico-sanitarie e di analfabetismo che gravavano in quel periodo nella maggior parte della popolazione misilmerese.

Ma la volontà di traslare la sacralità letteraria del “Sommo Poeta” nel nostro dialetto regionale assurse sicuramente a compito più arduo della sua carriera.

Un’impresa encomiabile non soltanto per la difficoltà oggettiva dell’operazione – che richiedeva un triplice procedimento: assimilazione dell’italiano poetico del’300, attualizzazione all’italiano corrente della sua epoca e passaggio finale al siciliano – ma anche per la grandezza smisurata dell’opera, capace come poche di raccontare la storia di un singolo e al tempo stesso di tratteggiare il destino dell’intera umanità.

Guastella impiegò vent’anni, dal 1903 al 1923, per completare il suo capolavoro, rispettando cantiche, canti, terzine ed endecasillabi del poema dantesco.

L’opera inizialmente fu pubblicata nel 1921 nelle singole cantiche dell’Inferno e Purgatorio, per poi essere presentata in un unico volume completo la sera del 12 ottobre 1923, nella sala consiliare del Comune di Misilmeri, dove il dottore lesse l’undicesimo e il ventiduesimo canto dell’Inferno, tra lo stupore e gli elogi dei presenti.

La traduzione della Divina Commedia per Guastella, non fu che il compimento di un percorso umano ed intellettuale che solo pochissimi altri predecessori prima di lui avevano compiuto.

Tra i traduttori in siciliano della Commedia il primo in assoluto fu il matematico e poeta dell’ordine di San Francesco di Paola, Paolo Principato, che lavorò alla sua stesura nel lontano XVII secolo e di cui poco sappiamo.

Poi con un salto di secoli incontriamo un altro messinese nonché ex soldato garibaldino, Tommaso Cannizzaro, che quando non traduceva in siciliano usava scrivere i suoi versi in francese.

Cannizzaro era un convinto fautore del valore non solo poetico, ma anche politico del siciliano: nel 1904, nella dedica della sua Commedia “ai Comuni di Sicilia”, ricordava che il siciliano era stato alle origini della lingua adoperata da Dante, poi divenuta lingua nazionale.

Traduzioni che successivamente avrebbero visto la luce con una certa frequenza, sono quelle dell’alcamese Vincenzo Mirabella Corrado, datata 1915, rimasta inedita a seguito della morte dell’autore e del bagherese Giovanni Girgenti, pubblicata nel 1954. Al 1966 risale invece quella del padre domenicano Domenico Canalella da Mussomeli, pubblicata a tiratura limitata in quanto stampata in ciclostile.

Il pregevole lavoro letterario di Guastella si colloca quindi in un periodo dove forte erano la ricerca e gli studi danteschi di cui è stata prodiga la Sicilia e l’interesse per le traduzioni siciliane della Divina Commedia.

L’obiettivo di Guastella fu proprio quello di far conoscere la Commedia di Dante al maggior numero possibile di lettori, offrendo la sua traduzione soprattutto a chi non aveva grandi studi alle spalle, anche in relazione alle masse popolari poco alfabetizzate, che ancora non parlavano altro che il dialetto locale, identificando una funzione di diffusione, del messaggio religioso e morale della Commedia, ma anche come incentivo all’uso ed alla conservazione del dialetto stesso.

Obiettivo raggiunto, le sue terzine dantesche furono molto popolari e l’opera venne anche premiata dal Ministero dell’Educazione Nazionale.

La familiarità di alcune espressioni, la ripetitività di alcuni concetti che conferisce loro forza – senza rinunciare ai richiami all’originale di cui si percepisce chiaramente l’eco – la rendono una traduzione ben riuscita, e utile nonostante sia trascorso più di un secolo.

Un lavoro ardito portato avanti con passione, e infine dedicato alle figlie Nannina e Ninfa, di cui lo stesso Guastella traccia un delicato quadretto familiare quando, proprio nella dedica, scrive che le ragazze avevano partecipato alla traduzione che definisce: “lieta occupazione delle lunghe sere invernali, attorno al focolare domestico, perché si ricordino della vita semplice, onesta ed operosa del padre dedita alle cure della famiglia e al culto dei grandi”.

Un’opera letteraria diventata orgoglio del patrimonio culturale misilmerese, da valorizzare ma soprattutto divulgare, che grazie al dialetto siciliano, nella sua freschezza e profondità, veicola il capolavoro di Dante attraverso un viaggio spettacolare, che si snoda sull’onda carezzante della musicalità e purezza poetica di versi immortali.

«Iuntu a mità di vita, una nuttata / nta un voscu mi trovai spersu e cunfusu, / sgarratu avennu la diritta strata/ lu stissu ca nni parru m’è pinusu/ pensu a di macchi nivuri e puncenti e tremu di la testa a ghiri iusu ».
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