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Peste, vaiolo, lebbra e spagnola: a Palermo una "passiata ri salute" a colpi di epidemie

Come può aver fatto il popolo siciliano (che il fatalismo lo ha insito nel sangue come i globuli rossi) ad affrontare le violente epidemie che hanno afflitto la Trinacria?

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 2 novembre 2020

Nicolas Poussin, La peste di Ashod, (1630-1631), Parigi, Louvre

Chissà se nel Capodanno del 1919 la gente brindava al nuovo anno facendo trenini e cantando “Cacao Meravigliao”, tipo noi quest’anno allo scadere del conto alla rovescia (mi carissiru i manu!).

Nostradamus, i Maya, l’ape Maia, Paolo Fox e perfino il divino Otelma, tutti si sono prodigati a una propria interpretazione di fine del mondo, di catastrofi, carestie e tutte cose che la depressione al confronto è una passiata sotto il sole di primavera.

E come può aver fatto il popolo siciliano, che il fatalismo lo ha insito nel sangue come i globuli rossi, ad affrontare le violente epidemie che hanno afflitto la Trinacria?

Due sono i miei sospetti: che il signore che mi gioca bollette al centro scommesse deve essere discendente di Nostradamus, perché ogni volta che mi ha detto “sta quadra deve vincere per forza” non ci ha azziccato mai, e che, come oggi, anche nel passato, di fronte all’atrocità di un'epidemia la gente non sapeva dove mettere mani.
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Voi pensate per esempio che Gianfilippo Ingrassia, un nome un marchio una garanzia! (su cui ho scritto un articolo e liggitivillu), proprio quello che ha dato il nome all’ospedale, nel 1575, essendo medico, voleva combattere la peste con una sorta di decreto che spostava i lazzaretti fuori dalle città, i vestiti dei contagiati dovevano essere bruciati e, peggio di peggio, chiudere le chiese di modo che la gente non si assembrasse.

Ma voi lo immaginate, se è difficile oggi, quanto deve essere stato impossibile ai tempi, specie con l’avvento dell'Inquisizione, dove quello più moderato era la versione 2.0 di Paolo Brosio, dire alla gente “picciotti a messa basta chiù”?

Comunque, proprio perché la chiesa a fine pestilenza doveva cadere in piedi (questa è la versione per i laici), o magari c’è stato davvero il miracolo (questa è la versione per i religiosi), la cosa fu archiviata con Santa Rosalia che libera Palermo dalla peste nel 1630 e Gianfilippo Ingrassia se la prende dove se la prende il De Santis di Cetto La Qualunque.

E se andiamo ancora indietro nel tempo quando al posto della peste c’era la lebbra come si fa a non citare la famosa chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi?

Costruita dai normanni usando le rovine del castello arabo Yahya (equivalente del nostro Giuvà), fu dedicato al Santo, guadagnandosi nel 1155 la medaglia di lebbrosario proprio perché Guglielmo I decide di portarci i lebbrosi; visto che si trovava fuori dalla mura nel tempo diverrà un lazzaretto e tale rimarrà fino all’inizio del 1800.

Considerate che nel mondo cristiano si contavano 19.000 lebbrosari e che è proprio il rituale della chiesa di Vienna a dire: "Amico mio, Nostro Signore vuole che tu sia infetto da questa malattia, e ti fa una grande grazia quando ti vuole punire dei peccati che hai commesso in questo mondo" (in pratica una versione light di: "Vai in prigione senza passare dal via!").

Comunque, manco il tempo di chiudere San Giovanni dei Lebbrosi e nel 1801 spunta un’epidemia di vaiolo: 8.000 morti solo a Palermo! E anche se non ci credete, il primo vaccino di massa contro il vaiolo venne fatto proprio a Palermo per volere di Ferdinando IV, che era scappato da Napoli perché stava messa peggio di noi, all’interno dell’odierna biblioteca regionale del Cassaro.

In questa virtuale passeggiata (megghiu starisi a casa) ci spostiamo adesso nel posto che si ricollega a quel fatidico Capodanno 1919 di cui parlavamo in apertura: le Catacombe dei Cappuccini. Così, tanto per sdrammatizzare, mi ricordo che la prima volta che mi ci portarono alle scuole medie, una volta entrati mi azzardai dire: “prufussù, qua non c’è un’anima viva”.

L’infelice battuta mi costò nell’immediato na scoccia ri coddu (che per i profani è uno scappellotto colpendo come "Del Piero colpiva la palla quando tirava a giro") e interrogazioni per sfregio. È proprio in questo emblematico luogo che si trova l’ormai famosissima Rosalia Lombardo, ovvero la bambina che sembra dormire.

Ecco, di tutte le informazioni che sappiamo su questa sfortunatissima bambina, quella che inizialmente avevamo archiviato, almeno fino questo 2020, è che la causa della morte di Rosalia altra non fu che l’influenza spagnola. Questa, nonostante quella più vicina a noi, era fino a l’altro ieri l’epidemia di cui se ne sapeva di meno.

Di spagnolo ha solo il nome perché, che ci crediate o no, il primo focolaio si avrà nella contea di Haskell nel Texas dove almeno inizialmente rimarrà confinata (il problema nascerà appena alcuni ragazzi di questa contea si arruoleranno nell’esercito).

Babbiamo e babbiamo, ma anche quando rimaniamo affascinati dall’atmosfera quasi alla Tim Burton che si respira specie di fronte alla piccola Rosalia, dovremmo sempre tenere in conto che ci troviamo di fronte alla storia di un padre che, tempo niente, si è visto strappare la figlioletta e in un atto di disperazione, quasi Shakespeariano, ha tentato di riportarla in vita per sempre imbalsamandola.

L’influenza spagnola ebbe due ondate: una nel 1918 e una ne 1920. Il danno fu proprio che la prima ondata fu leggera, se non asintomatica, portando la gente a scambiarla per una normale influenza. Quando due anni dopo tornò molto più aggressiva non ci fu tempo di correre ai ripari e causò cinquanta milioni di morti.

Oggi, per la serie “munnu ha stato e munnu sarà”, il nostro profeta più illuminato fu una che disse “non ce n’è Coviddi” e pure lei ci sgarrò. E nonostante il grande periodo di incertezza, su una cosa ci possiamo mettere mano sul fuoco: "mai na cosa cinese aveva durato accussì assai!".
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