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È il borgo della Santuzza (e forse non ci sei stato): perché "cu trasi ca u nnesci cchiu"

Forti di entrare nel posto giusto al momento giusto, ci lasciamo pervadere dai profumi del luogo. Un misto tra storia, architettura e religione. Un trio pieno di bellezze

Salvatore Di Chiara
Ragioniere e appassionato di storia
  • 6 ottobre 2025

Il borgo di Santo Stefano di Quisquina

Santo Stefano Quisquina, il borgo di Santa Rosalia “Sulle orme di Lorenzo Panepinto, umile quisquinese al servizio dei lavoratori”. Per un attimo ci spogliamo della veste abitudinaria di semplici turisti. Con affetto ricordiamo le gesta di un combattente che mise al centro la sua vita per difendere quella dei lavoratori (Fasci Siciliani).

La scelta di visitare il borgo di Santo Stefano Quisquina è un misto tra storia, architettura e religione. Un trio ben definito, ricco di sfumature colorate. La provincia di Agrigento è ben assortita, ci ammalia con le sue bellezze. Lasciati i borghi di Alessandria della Rocca prima e Bivona dopo, il "verde sicano" acchiappa pensieri e curiosità.

Forti di entrare nel posto giusto al momento giusto, ci lasciamo pervadere dai profumi del luogo. Che sia vegetazione o degustazioni non conta, non abbiamo scampo. “A Santu Stefanu cu trasi dintra u nnesci cchiu” dice un arzillo giovinotto di 90 anni.

Ha ragione, crediamo alle sue parole. La passeggiata conduce il curioso a vagare tra abitazioni antiche che lasciano il passo alle “nuove generazioni”. Un mix "quasi" perfetto. "Lu ciavuru" dei formaggi ingolosisce, ma non possiamo permetterci subito uno spuntino. È tempo di visita, lo spirito d’osservazione reclama lo spazio necessario.

Si parte dalla Chiesa della Beata Vergine Maria. Del vecchio edificio, crollato negli anni Sessanta, rimane solo il maestoso campanile in pietra. Risalta l’inquadratura “giovane” e i lavori che hanno permesso di non perdere la fede religiosa nel quartiere. Quel che fu rimane un ricordo, la struttura è in cemento armato con travi e pilastri.

Uno scatto e si parte alla ricerca di quei particolari che possano farci innamorare. Dalle viuzze del centro, una volta percorso la via dell’Orologio, eccoci giungere in Piazza C. Madre. Siamo nel cuore del paese, dove sono raccolte le maggiori opere stefanesi.

Trattasi della Chiesa di San Nicolò di Bari (oggi Madre). Fonti storiche evidenziano una sua esistenza sin dal XII sec., ma venne rifondata nel XIV sec. da Federico Chiaramonte. Ricca di passaggi storici, il Santuario (con tanto di elevazione avvenuta nell’ottobre del 1987) è ubicato in un ambiente ricco di sorgenti e a rischio frane.

Di tipo basilicale a tre navate, è costituita da blocchi in pietra locale. Il campanile è di pianta quadrata con finestrelle arcuate e orologio in cima. Nella parte alta si trova la loggia campanaria. Se l’esterno presenta una certa leggerezza di stile, è l’interno a risaltare le curiosità. È decorata con stucchi e cornici color oro.

Tra le opere più importanti: la “Risurrezione di Lazzaro”, la “Cena di Emmaus” di autore ignoto, le tele del martirio di San Lorenzo e la strage degli Innocenti di Stefano Panepinto. Tra una visita e l’altra spicca quel languorino “gusto formaggio”. Come detto prima, siamo accecati dagli odori provenienti dalle abitazioni.

Urge un assaggino che ci spinga oltre, verso nuove mete. A 732 m s.l.m il vento non lascia spazio a ripensamenti. Pane e formaggio, e la “conza” è pronta. Corrono voci che quella sia terra di “pecora vudduta”. È uno stufato di pecora. Da gustare preferibilmente all’interno della Villa Comunale (ricca di cipressi, pini e salici). Uno dei tanti polmoni verdi di cui il territorio non può fare a meno.

Una volta raggiunto l’obiettivo gastronomico, la passeggiata - seppur breve - ci porta dritti all’Oratorio delle Cinque Piaghe. È un edificio costruito nel 1580, con pianta rettangolare ad aula unica. Custodisce l’altare maggiore (maestoso), mentre in alto e nel paliotto sono custoditi cinque pezzettini di marmo rosso che rappresentano le cinque piaghe di Gesù Cristo.

Usciti dalla chiesa, percorriamo la via principale a ritroso e continuiamo dritti su una salita poco faticosa. Svoltato a destra, nell’incredulità momentanea, si erge una fontana meravigliosa.

Siamo a “Lu Casteddu”, appunto in Piazza Castello (ricorda un castello non più esistenti). A quattro vasche di origini settecentesche, la fontana esalta contenuti nobiliari e sfarzosi. Brilla e zampilla l’acqua limpida e fresca. Fonte inestimabile di un territorio “chinu” d’acqua e di un sottosuolo ricco. Per chiudere il cerchio, il palazzo baronale dei Ventimiglia include un percorso storico elevato.

Alla ricerca di refrigerio, una panchina ci permette di rifiatare. Piazza Castello è un tuffo nel passato, di fonti e documenti storici. Nato come villaggio, a partire dal X secolo esisteva un casale dal nome Sancti Stephani. Di proprietà della famiglia Sinibaldi (parenti di Santa Rosalia), nel 1296 passò a Giovanni Caltagirone. Successivamente venne amministrata dai Larcan, Ruiz e Ventimiglia. Con questi ultimi visse un periodo fiorente dal punto di vista economico.

Nel 1863 assunse la denominazione completa che oggi, nel 2025, ci permette di conoscerla come Santo Stefano Quisquina. La scorpacciata storica non inganni, il territorio offre altri spunti di visita, a partire dalla Chiesa di Sant’Antonio Abate o Purgatorio.

A un’unica navata, è ricca di opere come la statua della Madonna Immacolata sorretta dagli angeli del Settecento e una statua di Sant’Antonio Abate rivestita d’oro zecchino.

Santo Stefano è un borgo da vivere su più fronti. L’aspetto naturalistico non manca! I Monti Sicani sono ricchi di boschi, in particolare quelli della Quisquina e Buonanotte. E poi, allontanandoci dal paese, come possiamo dimenticare l’Eremo di Santa Rosalia e il Teatro di Andromeda? Seppur approfonditi in altri articoli, sono luoghi da non perdere! Se volgiamo lo sguardo verso orizzonte manca ancora un particolare da non sottovalutare: l’Eremo di San Calogero.

Posto a 967 metri di altezza, pochi sanno della sua esistenza. Spodestato dalla presenza di Santa Rosalia, un itinerario escursionistico unisce i due eremi. Ma non possiamo svelare i particolari, merita un capitolo a parte. E quei reperti archeologici… Adesso sì, è giunta l’ora di lasciarci con un abbraccio. Il piccolo comune agrigentino è un valore aggiunto di questa terra.

Non manca nulla, o forse la buona volontà di perdersi nel cuore sicano di un luogo indimenticabile.
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