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È in Sicilia ma ti senti in Andalusia: viaggio nell'isola (colorata) delle bouganville

Vi portiamo in una delle isole più selvagge delle Eolie, fra i resti di villaggi preistorici, una vegetazione ormai prevalentemente costituita di specie spontanee e panorami unici

Santo Forlì
Insegnante ed escursionista
  • 5 ottobre 2025

Filicudi

Due giorni a Filicudi un’isola fra le più lontane e selvagge dell’arcipelago delle Eolie, fra i resti di villaggi preistorici , una vegetazione ormai prevalentemente costituita di specie spontanee e panorami unici e indimenticabili. Il sabato 27 settembre il gruppo “Camminare i Peloritani” si è imbarcato a Milazzo per andare a Filicudi isola di origine vulcanica una delle ultime e più selvagge dell’arcipelago delle Eolie. Partiti di prima mattina siamo giunti dopo due ore e mezza di navigazione con un meteo che non prometteva niente di buono, pioggerellina e cielo ingombro di nuvole da lasciare presagire un gran brutto tempo.

Adeguatamente equipaggiati siamo comunque partiti, abbastanza scettici su quanto ci ripeteva il nostro capogruppo D’Andrea Pasquale che fra un’ora sarebbe spiovuto. Abbiamo iniziato il nostro percorso salendo da una scalinata in pietra lavica di cui non si intravedeva la fine. Un pensiero costante di noi escursionisti è che il mondo è fatto a scale.

Comunque dopo vari tornanti con pergolati in cui c’erano graziose abitazioni intonacate di fresco in calce bianca e dei patii somigliante a quelli dell’Andalusia con pergolati e bouganville rosse sui muri esterni, finalmente siamo giunti in un luogo non acclive: il rione di Piano Chiesa.

Quivi davanti all’ampio cortile della cattedrale ci siamo seduti e rifocillati e ha pure spiovuto anche se il cielo è rimasto colmo di nubi ed il paesaggio avvolto dalle brume. Ci siamo addolciti la bocca con alcuni fichi catturati durante il passaggio. Da qui in avanti sono scomparsi tutti gli alberi da frutto tranne alcuni fichi d’India non immediatamente commestibili e che non avevamo il tempo per raccoglierli e sbucciarli.

Ci siamo inoltrati in un paesaggio dominato da piante selvatiche fra cui vaste siepi di lentisco e di euforbia arborescente. Eravamo anche accompagnati dall’odore balsamico ma forte e pungente della ruta selvatica che era cresciuta così tanto da assumere una consistenza arbustiva. Del resto la recente pioggia aveva amplificato tutte le sensazioni olfattive, percepivamo pure l’odore dolciastro delle lumache che numerose si attaccavano ai rametti.

Oramai camminavamo tutti in fila indiana perché esisteva soltanto uno stretto e malcerto sentiero che come un nastro tagliava la montagna. Provvidenziali le ginestre sorgenti lungo il bordo superiore che costituivano un valido appiglio. Laggiù in fondo vedevamo il mare, un nastro scuro di pietre nere, ma non c’era la spiaggia, infatti la montagna scendeva perfettamente in verticale. Comunque il bordo del nostro sentiero era ingentilito come un morbido e ricamato cuscino da ciuffi compatti, estesi e addensati di licheni bianchi.

Spettacolo del tutto inconsueto. Abbiamo percorso circa tre chilometri che per la lentezza e la difficoltà con cui si sono svolti ci saranno sembrati almeno il doppio. La nebbia non ci consentiva di ammirare più di tanto il paesaggio, riuscivamo a vedere soltanto la baia a semicerchio del porto e l’isola di Alicudi di cui sbucava soltanto la punta mentre il resto rimaneva avvolto nella coltre brumosa.

Comunque almeno vicino a noi riuscivamo a scorger un caleidoscopio di colori sfumati: ciuffi di alta erba come in una savana che iniziavano a trascolorarsi, arbusti chiari, gialli, verdi. I frutti rotondi e ancora gialli dei corbezzoli, i fichi d’India aggrappati alle pale e pure loro di vari colori.

Abbandonato lo stretto sentiero ne abbiamo intrapreso uno più largo, pietroso e transennato da massi chiazzati di licheni gialli e siamo giunti alla sommità del monte i 743 metri di Fossa Felci. Indi abbiamo intrapreso la via del ritorno non tutta in discesa come si potrebbe supporre perché nel nostro percorso ad anello siamo scesi e risaliti più volte fino a quando abbiamo imboccato la stessa strada dell’andata che ci avrebbe riportato al nostro albergo vicino al porto un’ora prima dell’imbrunire.

Il secondo giorno ci siamo svegliati con il sole e abbiamo intrapreso in nostro cammino in una giornata luminosa in cui abbiamo subito potuto ammirare il mare cristallino, la bella baia a semicerchio e l’isola di Alicudi bruna sagoma di un’unica montagna sorgente dal mare. Inizialmente abbiamo percorso una strada vicina alla spiaggia interamente costituita di grossi ciottoli neri levigati , lavorati dalla furia delle acque: alcuni di una forma ovoidale, altri perfetti per fare un lastricato tipo via Appia.

Poco è durato il percorso in piano perché poi abbiamo dovuto intraprendere delle larghe ed ampie scalinate in pietra gialla arenaria per portarci a Capo Graziano dove è stato rinvenuto e portato alla luce con scavi dal 1956 al 1969 un villaggio preistorico dell’età del bronzo in pietra con capanne strette e addossate le une alle altre dove si sono trasferiti nel 1700 A.C. gli abitanti di Filo Braccio il più antico in assoluto, forse per esigenze di difesa.

Da qui si gode la vista più bella in assoluto perché la più vicina di tutto l’arcipelago delle Eolie: Stromboli fumante la più lontana, Panarea la più piccola e meno acclive, Alicudi di fronte a noi che ha l’aspetto di una montagna, Salina e Lipari dalle forme più allungate ed articolate ed infine Vulcano.

Da qui lo sguardo può spaziare anche su alcuni scorci panoramici di Filicudi: la baia perfettamente a semicerchio, il promontorio un po’ montuoso e l’ondulata linea costiera al di là di esso, il tutto avvolto dal mare blu. Ridiscesi ci siamo avviati verso la spiaggia di Pecorini interamente costituita di grossi ciottoli.

Con qualche cautela per non ammaccare i piedi e le altre membra siamo entrati in acqua per farci un bel bagno rinfrescante in un paesaggio idilliaco. Dopo un’ora circa abbiamo intrapreso la via del ritorno. Veramente all’andata non avevamo granché fatto caso alla strada. Adesso che eravamo un po’ stanchi ci siamo resi conto che qui come in altre isole non era affatto pacifico che si potesse intraprendere una via piana e litoranea, poiché una striscia costiera semplicemente non esiste, in molti tratti la montagna arriva a perpendicolo direttamente sul mare.

Così ci è toccato nuovamente inerpicarci per scalinate lastricate in pietra e per sentieri scavati nella roccia. Siamo poi giunti in uno stradone vero e proprio con degli spiazzi ai lati in cui c’erano degli alberi di olive belli carichi di frutti vicini alla maturazione, ai margini abbiamo osservato una specie strettamente endemica dell’isola: il trifoglio del basalto con i fiorellini bianchi. Poi sulla strada abbiamo visto qualche casa e un bar, vi siamo entrati e accaldati come eravamo ci siamo abbondantemente rinfrescati e rifocillati, salvo poi accorgerci che qui come in altre località turistiche c’erano dei prezzi pure loro escursionistici tutti indirizzati all’insù.
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