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L'antica dimora tra le più illustri in Sicilia: qui puoi leggere una (misteriosa) iscrizione

Ancora oggi il dibattito è aperto sull'antica scritta in latino, divisa in tre parti e incisa su una cornice. Delle parole, pare, contenute in un testo di Gregorio Magno

Livio Grasso
Archeologo
  • 21 maggio 2023

Il palazzo Clarentano a Randazzo

Sontuosa dimora nobiliare del XVI secolo, il palazzo Clarentano di Randazzo rientra nel novero dei monumenti più illustri del versante territoriale.

Situato nelle vicinanze del centro storico, fu costruito nel 1509 su iniziativa del nobile Antonio Clarentano. Il prospetto, in stile tardo-gotico, è rivolto in direzione dell’attuale via duca degli Abruzzi.

L’edificio, inoltre, è costituito da due livelli articolati in piano terra e piano nobile. Al piano terra, si scorge un ampio portale dotato di un poderoso arco a sesto ribassato.

Esso è, altresì, concluso da un cordone esterno poggiante su due capitelli decorati. Ai lati del portale, invece, si stagliano due finestre rettangolari in pietra arenaria.

Queste ultime sono identicamente contrassegnate da un cordone, ad andamento rettilineo, che risulta essere supportato da due peducci; all’esterno si notano pure delle grate in ferro battuto. Di grande pregio le tre bifore in arenaria sorrette da una cornice marcapiano che, a sua volta, separa il pianterreno dal piano nobile.
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Sulla cornice figura un’iscrizione latina che ha destato l’interesse di molti studiosi.

Il testo, disposto su un’unica linea, è scandito in tre parti per mezzo di due protomi leonine a sostegno dello stemma. Oltre a ciò, lo stile di scrittura è in caratteri capitali di tipo romanico. Per di più siamo a conoscenza che, a partire dal 1857, la sezione finale del testo rimase coperta dal muro dell’edificio attiguo. Tuttavia, ricaviamo notizia che fu trascritta dall’architetto francese Bailly.

In ogni caso, a seguito di dettagliate disamine, il solco dell’incisione non è particolarmente profondo. In più, le parole, oltre ad essere leggibili ed ordinate, sono correntemente separate da una serie di “interpuncta”. Nel 2007, a tal proposito, sono state nuovamente esaminate da alcuni epigrafisti.

Questi ultimi, dopo accurati studi, hanno evidenziato notevoli differenze rispetto alla lettura fornita da Bailly. Pertanto, il reperto testuale è stato restituito nel seguente modo: “ Inter autem// pensan// dum es<t> q(uod) tutior via sit ut bonum quis que post mortem suam sperat agi per alios agat dum vivit ipse prose nobilis An/ tonius Clarintanus MCCCCCIX”.

Secondo l’interpretazione rilasciata da un amico del Bailly, esperto nelle usanze religiose del Medioevo, si tratterebbe di un inno che veniva cantato dai monaci benedettini durante lo svolgimento dei propri lavori. Ciò malgrado, a giudizio dell’erudito, figurano due errori: “nedum” per “pedum” e “sit" per “sic”. A partire da questa osservazione, ha motivatamente interpretato: << Inter autem pensa, pedum estior tutior via. Sic, ut bonum quisque post mortem suam sperat agi per alios, agat, dum vivit, ipse, pro se>>.

Quanto alla traduzione, invece, ha così proposto: «Il lavoro è il sentiero. Tu speri che dopo la tua morte il bene sarà fatto da altri: fai da te anche quando sei vivo; paga il tuo debito personale».

Sebbene condivisa dai più, ben diverse sono le congetture formulate dal professore Sabbiadini e dal Vagliasindi Polizzi. Il primo ha riportato l’epigrafe in tal maniera: «Inter vitae pensa ne diu esto. Tutior via sit ut bonum quod quisque post mortem suam sperat agi per alios, agat dum vivit ipse per se«».

Il suddetto passo, perciò, è stato tradotto: «Non indugiarti troppo a lungo tra le cure della vita. Sarebbe regola più sicura che ciascuno facesse da sé mentre vive quel bene che spera gli sia fatto dagli altri dopo la morte».

Il Vagliasindi, di converso, lo ha inteso diversamente: «Quisque spera post mortem sua agi inter pensa dum, ipse vivit agat bonum ut autem tutior sit via, esto per alios nedum, pro se».

In termini di significato, equivarrebbe a dire: «Ognuno spera dopo la sua morte figurare, nei monumenti, mentre egli vive benefici e per sicuro riuscire si studi per gli altri non meno che per sé stesso farebbe».

Ad ogni modo, di recente, è stato appurato che la "scritta" non è altro che l’incipit del capitolo LVIII contenuto nei "Dialoghi" di Gregorio Magno.

Il filologo Simonetti, in definitiva, lo ha ulteriormente reinterpretato: «Riguardo a questo argomento bisogna considerare che la via più sicura è che il bene, che ognuno spera di ricevere da altri dopo la sua morte, egli stesso lo faccia a suo beneficio durante la vita».
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