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L'insulto che "puzza" di dignità: perché non dovresti offenderti se ti dicono "Vastaso"

È un po' come se fra cinquecento anni un ragazzino calciasse un pallonata contro la vostra macchina e voi per sfogare la rabbia gli urlaste contro: "Conducente!"

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 15 maggio 2021

La pallonata alla macchina del vicino, la bombetta nel cortile, l’esultanza come quella di Tardelli al mondiale dell'82 alle tre del pomeriggio mentre tutto il palazzo sta facendo il riposino.

E ancora, la pernacchia in classe, le corse nei corridoi della scuola e le ciliegie sparate con la fionda nella biancheria della professoressa che il giorno prima ti aveva stampato un bellissimo due, solo perché per l’ennesima volta ti eri fatto trovare impreparato.

Non c’è certo da andare fieri di una carriera da pallone d’oro del genere, ma volete mettere la soddisfazione di sentirsi gridare: «Vastaso!»?

E poi, diciamoci la verità, in periferia, e lo sa bene il ragazzo della via Gluck, non c’era tutto questo gran da fare, specie negli anni Novanta quando l’unico svago era quel bellissimo giocattolo in cui si metteva l’acqua dentro e ammaccando i bottoni, grazie alla pressione, si dovevano centrare degli anellini colorati in un’asticella.
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Ogni colpo di vastaso era quindi una medaglia che si appendeva al petto e che piano piano ti faceva avanzare di grado. Ma da dove viene questa bellissima parola che ci faceva sentire tutti (parlo di quelli deviati) un po’ come ‘O sarracino?

E se vi dicessi che questa parola, che oggi è diventato un insulto, anticamente raffigurava un mestiere? Proprio così, vastaso, dal greco βαηστασου (come si legge sono fatti vostri) e poi diventato in latino bastasius/vastasius, era colui che faceva il mestiere di trasportatore.

È un po’ come se fra cinquecento anni un ragazzino calciasse un pallonata contro la vostra macchina e voi per sfogarvi gli urlaste contro: «Conducente!», o magari se è al nord gli date del tranviere.

Per entrare più nello specifico ci facciamo una passeggiata immaginaria per le vie del quartiere Capo di Palermo.

Chi ha avuto la fortuna di trovarsi perso in quel dedalo di vicoli, famosi per essere le strade che usavano i Beati Paoli per seminare le guardie, si sarà imbattuto in nomi di vie che sono dei veri e propri capolavori: vicolo Pilicelli, via Scippateste, vicolo del Secco, cortile del Ricottaro, vicolo della Stalluzza, vicolo della Cassetta, e, nel nostro caso, via delle Sedie Volanti.

È proprio grazie a questa via, in un certo qual senso, che se ve la prendete con qualcuno poco educato potere dargli del vastaso. Infatti, a dispetto del nome, non c’era nessuna sedia indemoniata ma venivano costruite le famose portantine che i nobili amavano tanto per andare in giro per la città e che dovevano essere il corrispettivo della nostra Smart.

Queste portantine erano trasportate a mano e chi faceva questo mestiere veniva chiamato portantino, ma molto più comunemente vastaso.

Non erano certo tipetti dalla erre moscia e con l’orologio del papi quelli che si prodigavano a fare questo lavoro, erano più che altro elementi un poco rustici che tra un turno e l’altro si riunivano nelle taverne alla Vucciria giocando a carte e tracannando vino a tinchité: per fortuna non c’era ancora il test dell’alcol per questi conducenti.

Sempre nello stesso periodo, forse perché il pittito (la fame) era assai e l’arte dell’arrangiarsi era l’unica arte alla portata di tutti, c’era un altro tipo di facchino ancora più curioso. È risaputo che, da che mondo è mondo, i ricchi sono ricchi perché hanno più soldi dei poveri (su questo non ci piove).

E chi ci poteva andare alle grandi feste che si tenevano nei palazzi nobiliari se non loro? Ora, siccome la natura non lascia mai nulla per caso fa sì che il picchio viva sulla schiena del rinoceronte che lo protegge dai predatori ma in cambio lo tiene pulito dalle zecche mangiandole (che tra l’altro è pure il suo piatto preferito).

Allo stesso modo, questi poveri nobili, vestiti di abiti sfarzosi, belle parrucche e gonne lunghissime, nelle serate di pioggia andavano incontro a una delle (Johnny Stecchino docet) “piaghe di Palermo terribili! Ma è la natura e l’uomo non ci può fare niente”: l’allagamento delle strade.

Ebbene si, quando pioveva, anche nel 700, soprattutto la zona di via Maqueda vicino ai Quattro Canti diventava un lago. E come potevano fare mai i lor signori ad attraversare la strada con i vestiti tutti firmati che ancora dovevano pagare?

Semplicissimo, come il picchio e il rinoceronte, facevano lavoro di squadra: esistevano dei facchini, che si prendevano letteralmente in braccio il signore di turno, si infilavano nella pozzanghera e lo portavano dall’altra parte della strada (e signori belle panze avevano).

Altra cosa sono le vastasate, cioè delle farsette popolari che venivano rappresentate dentro i curtigghi (i cortili) e che potevano dirsi una forma di teatro degli ultimi. I protagonisti delle vastasate erano infatti molto spesso i vastasi che campavano di lavori umili e perlopiù sacrificanti.

Insomma, la prossima volta che vi danno del vastaso non prendetevela così tanto, in fondo è un insulto che puzza di dignità.
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