La casa di Catania, gli aneddoti da custodire: Giovanni Verga nei ricordi della pronipote
Poetessa e pittrice, vincitrice nel luglio 2025 del Premio Letterario Città di Nissoria (En) in onore di Calogero Gliozzo, Carla ha accettato di raccontarsi. L'intervista
Carla Verga
Portare il cognome Verga in Sicilia è come camminare dentro una storia che ancora parla, che respira tra le pietre di Catania e i silenzi di Vizzini, tra i libri ingialliti e le parole che non smettono di dire la verità del mondo. Carla Verga, pronipote del grande scrittore, vive questa eredità con una grazia lieve, con quella sensibilità che trasforma il ricordo in vita.
Poetessa e pittrice, vincitrice nel luglio 2025 del Premio Letterario Città di Nissoria (En) in onore di Calogero Gliozzo, Carla ha accettato di raccontarsi per noi con la dolcezza e la lucidità di chi custodisce un legame antico ma ancora vibrante. «Nella mia famiglia, pur sapendo di appartenere a una stirpe importante, non siamo mai stati abituati a vantarci di questo status. Io stessa, a scuola o al lavoro, non ho mai detto di essere una discendente di Giovanni Verga. Solo se qualcuno mi chiedeva, allora lo confermavo. Ma sempre con molta umiltà. Siamo cresciuti in una famiglia semplice, come tante altre, anche se con un passato da studiosi e scrittori».
Giovanni Verga, fratello del bisnonno di Carla, Pietro, non è per lei solo un nome nei manuali di letteratura. È una presenza viva, un racconto familiare che attraversa le generazioni. Carla ha trascorso l’infanzia nella casa di via Sant’Anna, a Catania, quella stessa dove la memoria del grande autore ancora abita tra le ombre e la luce di una biblioteca sterminata.
«Io ho abitato nella casa di via Sant’Anna fino ai dieci anni. Era la casa di uno scrittore, dove vivevano i miei nonni. Mia nonna fu colei che soccorse Giovanni Verga quando si sentì male: mio nonno era fuori per lavoro e lei, nipote arrivata dal Veneto, era la sua unica nipote. Si erano voluti molto bene. Mio nonno, rimasto unico erede dopo la perdita dei fratelli, fu il nipote prediletto: lo chiamavano Giovannino per distinguerlo dallo zio Giovanni».
Carla ricorda con un sorriso le ore trascorse in quella biblioteca immensa, quando tutto le sembrava più grande di lei. «Mia madre mi raccontava che le mani in bronzo della contessa di Sòrvevolo, amore di Verga, ogni tanto erano calde e altre volte fredde. Io ero così suggestionata che avevo paura di toccarle… ma a volte, davvero, mi sembravano calde.
Erano mani bellissime, sempre posate sul grande tavolo della casa». C’è in queste parole un senso di magia domestica, la stessa che si percepisce quando Carla parla del suo bisnonno come di qualcuno che ha saputo fotografare il mondo. «Giovanni Verga ha raccontato quello che vedeva. Non ha inventato nulla: la sua parola è stata una fotografia. Ha reso la realtà in modo naturale, autentico, come un giornalista che racconta ciò che accade. Lui ha vissuto quello che ha scritto. Da qui nasce la parola “verismo”: verità». Il suo sguardo, quello di Verga, è ancora il nostro.
Quella capacità di restituire la vita com’è — senza giudicarla, ma comprendendola — rimane una lezione profonda anche per chi, come Carla, vive di emozioni e poesia. «Non so se io sono in grado di raccontare la realtà come lui. Io vivo di emozioni, e quindi rischio di avere una visuale soggettiva. Ma forse anche questo è un modo di guardare il mondo con sincerità». Quando le chiedo se il cognome Verga sia per lei un peso o un dono, la risposta arriva limpida: «Per me è un tesoro da tramandare. Lo porto con orgoglio, ma come qualcosa di vivo, da condividere con i miei figli e i miei nipoti. Io sono l’unica della mia famiglia che vive a Catania, e sento di essere un po’ una testimone di questa storia. L’interesse per Verga non si è mai fermato: il mondo lo ama ancora, davvero».
Nelle sue parole c’è un senso di continuità, una responsabilità dolce di chi sa che la memoria è un seme da custodire. «C’è ancora tanto da scoprire su di lui. Mio nonno fu un custode geloso e perfetto: conservava tutto, anche le spese annotate su piccoli fogli. E oggi quel patrimonio esiste ancora, anche se un po’ smembrato. Le lettere soprattutto — lui scriveva ogni giorno — raccontano la vita quotidiana, gli amori, i lavori teatrali. C’è ancora tanto da studiare».
E non mancano i progetti. Carla è in contatto con chi organizza eventi alla Casa della Capinera, luogo simbolico di una delle opere più toccanti di Verga. «Spesso si parla solo di Vizzini o di Aci Trezza, ma anche la zona di Monte Ilice, che Verga cita nella Storia di una capinera, è fondamentale. È un romanzo di invenzione, sì, ma con radici vere nei luoghi. E poi la forma epistolare è stata un’innovazione straordinaria: un capolavoro che fa riflettere anche sulla condizione femminile, ancora oggi attuale».
Forse è proprio questo che unisce Giovanni e Carla Verga: la capacità di guardare la vita dentro le sue verità nascoste, di riconoscere il dolore e la bellezza senza travestirli. Carla sorride quando racconta delle suore centenarie del monastero di San Benedetto, dove studiò da bambina: «Una di loro, oggi centenaria, si ricorda ancora di me! Quelle grate, quei silenzi, mi hanno sempre riportata alla Capinera».
E così, tra le sue poesie e i suoi dipinti, Carla Verga continua — a modo suo — la narrazione di una Sicilia fatta di realtà e sentimento, di radici e di luce. Perché la verità, come il verismo, non è mai solo un modo di scrivere: è un modo di vivere.
Poetessa e pittrice, vincitrice nel luglio 2025 del Premio Letterario Città di Nissoria (En) in onore di Calogero Gliozzo, Carla ha accettato di raccontarsi per noi con la dolcezza e la lucidità di chi custodisce un legame antico ma ancora vibrante. «Nella mia famiglia, pur sapendo di appartenere a una stirpe importante, non siamo mai stati abituati a vantarci di questo status. Io stessa, a scuola o al lavoro, non ho mai detto di essere una discendente di Giovanni Verga. Solo se qualcuno mi chiedeva, allora lo confermavo. Ma sempre con molta umiltà. Siamo cresciuti in una famiglia semplice, come tante altre, anche se con un passato da studiosi e scrittori».
Giovanni Verga, fratello del bisnonno di Carla, Pietro, non è per lei solo un nome nei manuali di letteratura. È una presenza viva, un racconto familiare che attraversa le generazioni. Carla ha trascorso l’infanzia nella casa di via Sant’Anna, a Catania, quella stessa dove la memoria del grande autore ancora abita tra le ombre e la luce di una biblioteca sterminata.
«Io ho abitato nella casa di via Sant’Anna fino ai dieci anni. Era la casa di uno scrittore, dove vivevano i miei nonni. Mia nonna fu colei che soccorse Giovanni Verga quando si sentì male: mio nonno era fuori per lavoro e lei, nipote arrivata dal Veneto, era la sua unica nipote. Si erano voluti molto bene. Mio nonno, rimasto unico erede dopo la perdita dei fratelli, fu il nipote prediletto: lo chiamavano Giovannino per distinguerlo dallo zio Giovanni».
Carla ricorda con un sorriso le ore trascorse in quella biblioteca immensa, quando tutto le sembrava più grande di lei. «Mia madre mi raccontava che le mani in bronzo della contessa di Sòrvevolo, amore di Verga, ogni tanto erano calde e altre volte fredde. Io ero così suggestionata che avevo paura di toccarle… ma a volte, davvero, mi sembravano calde.
Erano mani bellissime, sempre posate sul grande tavolo della casa». C’è in queste parole un senso di magia domestica, la stessa che si percepisce quando Carla parla del suo bisnonno come di qualcuno che ha saputo fotografare il mondo. «Giovanni Verga ha raccontato quello che vedeva. Non ha inventato nulla: la sua parola è stata una fotografia. Ha reso la realtà in modo naturale, autentico, come un giornalista che racconta ciò che accade. Lui ha vissuto quello che ha scritto. Da qui nasce la parola “verismo”: verità». Il suo sguardo, quello di Verga, è ancora il nostro.
Quella capacità di restituire la vita com’è — senza giudicarla, ma comprendendola — rimane una lezione profonda anche per chi, come Carla, vive di emozioni e poesia. «Non so se io sono in grado di raccontare la realtà come lui. Io vivo di emozioni, e quindi rischio di avere una visuale soggettiva. Ma forse anche questo è un modo di guardare il mondo con sincerità». Quando le chiedo se il cognome Verga sia per lei un peso o un dono, la risposta arriva limpida: «Per me è un tesoro da tramandare. Lo porto con orgoglio, ma come qualcosa di vivo, da condividere con i miei figli e i miei nipoti. Io sono l’unica della mia famiglia che vive a Catania, e sento di essere un po’ una testimone di questa storia. L’interesse per Verga non si è mai fermato: il mondo lo ama ancora, davvero».
Nelle sue parole c’è un senso di continuità, una responsabilità dolce di chi sa che la memoria è un seme da custodire. «C’è ancora tanto da scoprire su di lui. Mio nonno fu un custode geloso e perfetto: conservava tutto, anche le spese annotate su piccoli fogli. E oggi quel patrimonio esiste ancora, anche se un po’ smembrato. Le lettere soprattutto — lui scriveva ogni giorno — raccontano la vita quotidiana, gli amori, i lavori teatrali. C’è ancora tanto da studiare».
E non mancano i progetti. Carla è in contatto con chi organizza eventi alla Casa della Capinera, luogo simbolico di una delle opere più toccanti di Verga. «Spesso si parla solo di Vizzini o di Aci Trezza, ma anche la zona di Monte Ilice, che Verga cita nella Storia di una capinera, è fondamentale. È un romanzo di invenzione, sì, ma con radici vere nei luoghi. E poi la forma epistolare è stata un’innovazione straordinaria: un capolavoro che fa riflettere anche sulla condizione femminile, ancora oggi attuale».
Forse è proprio questo che unisce Giovanni e Carla Verga: la capacità di guardare la vita dentro le sue verità nascoste, di riconoscere il dolore e la bellezza senza travestirli. Carla sorride quando racconta delle suore centenarie del monastero di San Benedetto, dove studiò da bambina: «Una di loro, oggi centenaria, si ricorda ancora di me! Quelle grate, quei silenzi, mi hanno sempre riportata alla Capinera».
E così, tra le sue poesie e i suoi dipinti, Carla Verga continua — a modo suo — la narrazione di una Sicilia fatta di realtà e sentimento, di radici e di luce. Perché la verità, come il verismo, non è mai solo un modo di scrivere: è un modo di vivere.
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