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Croce Taravella, visioni della natura umana

La mostra si snoda lungo un percorso che organizza in tredici differenti ambienti la produzione di Croce Taravella, a cominciare dagli anni di formazione

  • 3 aprile 2004

Il 28 marzo scorso presso Villa Cattolica a Bagheria (in provincia di Palermo), si è svolto il vernissage della mostra antologica dedicata alle opere di Croce Taravella (in programma fino al 18 luglio a Villa Cattolica, a Bagheria, tutti i giorni tranne lunedì dall ore 9 alle 19), un’artista siciliano più volte protagonista di importanti eventi legati all’arte contemporanea, da “Il Genio di Palermo” (1998, 1999, 2000), alla personale alla Galleria Künstler-Aller-Art a Bregenz, in Austria (1999), dalla mostra a Palazzo Steri curata da Eva Di Stefano nel 1995, all’intervento ambientale eseguito nel 2000 nell’ambito del Progetto Vucciria coordinato da Jürgen Weishäupl, fino a “Beton”, l’installazione permanente nei sotterranei del Tacheles di Berlino. La grande mostra installata nelle sale interne come nel giardino e nella stanza della neve della villa settecentesca, è stata curata da Eva Di Stefano e promossa dall’assessorato ai Beni Culturali della Regione Sicilia e dal comune di Bagheria, con il contributo dell’Assessorato Regionale al Turismo e della Fondazione Federico II.

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Dopo un’introduzione composta da un’installazione video che presenta i cicli realizzati dall’artista nel corso degli anni ’80, la mostra si snoda lungo un percorso che organizza in tredici differenti ambienti la produzione di Croce Taravella, a cominciare dagli anni di formazione, che danno il titolo al primo ambiente e rivelano - nel ciclo dei Santi Martiri - la fascinazione intensa ed irresistibile che la sofferenza fisica e la decomposizione del corpo umano hanno esercitato fin dal principio sull’immaginario inquieto dell’artista. Con gli altorilievi della sezione “Dissezioni”, le atmosfere create da Croce Taravella si fanno via via più intense e disturbanti nei contenuti e nei materiali compositivi, fino al parossismo dell’utilizzo di teste di bue scarnificate che aggettano dalle tele del ciclo delle “Nature morte inorganiche” e si impongono come orripilanti rielaborazioni sul tema della vanitas,  minacciando lo spettatore con il monito crudele del disfacimento del corpo e l’inquietante visione della provvisorietà della natura umana.

Nulla a che vedere con la teche asettiche in cui Damien Hirst imprigiona i suoi cadaveri di animali tagliati a metà o dissezionati ed immersi nella formaldeide. Qui non c’è zelo scientifico, voglia di esorcizzare il terrore della morte attraverso il rigore della razionalità, manca l’approccio metodologico e anestetizzante di un medico alle prese con un’autopsia, che conferisce alle opere di Damien Hirst la loro qualità rarefatta ed esorcizza la morte incapsulandola nella rassicurante trasparenza di un ambiente sterile. Nelle tele taravelliane dei primi anni - come del resto nelle sculture del ciclo dei guerrieri assemblate con materiali riciclati, plastica squagliata e tubi contorti – il calcestruzzo e gli stracci raggrinzati ed applicati su supporti respingenti per “scolpire” la propria pittura materica, insieme alle colate selvagge di colore di reminiscenza pollockiana, sono tese alla rievocazione sfrontata del disfacimento che è del corpo di uomini ed animali ma è anche dei paesaggi urbani siciliani e palermitani che Taravella sceglie come soggetti di alcune tele eseguite a partire dagli anni novanta e che fanno parte del ciclo “Soggetti d’affezione” ma «ad attrarlo non è la decadenza intesa come compiacimento o nostalgia» da interpretare quindi come una vicinanza dell’autore alla sensibilità decadente, quanto piuttosto «la forza della sregolatezza e l’energia metamorfica che promana da quei recessi vitali», come sostiene la curatrice Eva Di Stefano all’interno del saggio critico sulle opere di Croce Taravella contenuto nel catalogo della mostra.

Punta di diamante della mostra la grande installazione permanente di nove metri per tre che giganteggia nella stanza della neve di Villa Cattolica, che nel settecento, per la sua temperatura fresca ed umida, era riservata alla conservazione delle riserve alimentari deperibili ed oggi grazie a quella stessa temperatura da anticamera dell’oltretomba e la configurazione architettonica che la rende simile ad una grande cripta sotterranea, è divenuta l’urna perfetta per accogliere questo “Grande Guerriero” di dimensioni ciclopiche, che sembra essersi materializzato dai racconti epici della Grecia antica e si presenta di fronte agli occhi dei suoi spettatori in una impietosa prospettiva di scorcio - umiliato e sofferente come il Cristo di Mantenga - con le membra sconquassate ed aperte ed un enorme fallo, ultimo segno della virilità residuo in questa creatura a cui il biancore del gesso e del colore smaltato conferisce l’aspetto di un fantasma e che l’artista ha inteso come una summa del “principio maschile nella sua arcaica totalità…fatto sia per le battaglie che per l’amore”.

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