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“E’ stato il figlio”, un giallo atipico in salsa palermitana

  • 9 maggio 2005

“E’ stato il figlio” (ed. Mondadori 2005 , pp. 231, 16 euro) è l’ultimo interessante libro di Roberto Alajmo, col quale l’autore palermitano (giornalista di professione) promette di ripetere il successo di “Cuore di madre”, giunto secondo al Premio Strega del 2003. Con la sua narrazione piana e regolare, senza cedimenti ma neanche impennate, lo scrittore delinea una storia chiara nella sua apparente semplicità. Sembra un’opera teatrale: il sipario è ancora chiuso quando la Polizia piomba a casa di Nicola Ciraulo, un LSU del quartiere Kalsa, e lo trova morto “sparato”; il figlio Tancredi intanto si è chiuso in bagno e il resto della famiglia lo addita come colpevole. Il motivo del delitto è futile: Tancredi uccide il padre dopo che questi lo picchia perché il ragazzo gli ha graffiato la macchina, una scintillante Volvo acquistata con i soldi dell’indennizzo per le vittime di mafia. La piccola Serenella infatti, figlia di Nicola, era stata uccisa per errore durante una sparatoria fra mafiosi. Il figlio viene arrestato.

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Adesso si apre il sipario, e ci viene svelato che la pistola non si trova, che l’assassino da perfetto buono a nulla non confessa il delitto né sconfessa i familiari, ma soprattutto intuiamo che la descrizione ironica, a tratti comica e paradossale di Alajmo, costruisce un giallo che diviene un pretesto per mostrarci dell’altro. Il romanzo è infatti un affresco fra sociologia e antropologia di una certa Palermo e di un tipo di palermitano, vizi senza virtù e disgrazie accompagnate da meschinità che il tocco leggero ed ironico dell’autore attenua fino all’ultimo punto, ma che un attimo dopo lasciano emergere una profonda e familiare amarezza. Degrado e rovine effettive e morali del sottoproletariato siciliano emergono dall’incisivo ritratto della famiglia Ciraulo, retta dalla madre e dalla nonna, ben delineate nella loro celata cattiveria e risolutezza.

E gli uomini? Lo scrittore ce lo dice chiaro e tondo: padre, figlio e nonno, sono accomunati solo da un’attitudine, scegliere il “non fare” piuttosto che il “fare”, e confermare che l’atavico immobilismo e fatalismo siciliano non è né favola né luogo comune. Chiarificatore alla fine del libro questo squarcio: “Tancredi obbedisce docilmente. In fondo è la prima responsabilità che gli tocca addossarsi in vita sua. A consolarlo è il fatto che almeno può limitarsi a un comportamento passivo. Non deve fare altro che aspettare che il destino faccia il suo corso. In qualche modo, il sacrificio si configura come un’assunzione lavorativa vera e propria.” Per chi volesse approfondire le letture dell’autore e giornalista palermitano segnaliamo inoltre fra i suoi libri: “Almanacco siciliano delle morti presunte” (Edizioni della battaglia, 1997), “Le scarpe di Polifemo” (Feltrinelli, 1998), “Notizia del disastro” (Garzanti, 2001), “Cuore di madre” (Mondadori, 2003), “Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo” (Mondadori, 2004).

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