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Fenomeno call center: intervista a Claudio Cugusi

  • 18 aprile 2006

Se il lavoro, si dice, nobilita l’uomo, averne oggi uno precario e flessibile, con la legge Biagi-Maroni, a che porta (o ha portato)? A diventare, per forza di cose, persone a metà, anch’esse precarie. Donne e uomini insicuri, frustrati, insoddisfatti, demoralizzati, stressati (gli aggettivi fioccano che è una bellezza), con qualche euro in tasca (sempre meglio di dire “sono un disoccupato”, certo) ma con pochissime possibilità d’ottenere l’agognata e totale indipendenza economica o il privilegio di crearsi finalmente (utopia) la propria famiglia. Perché con 500 euro netti al mese (quando ti va bene) e neanche sicuri (visto che di contratti te ne fanno d’ogni tipo: part-time - con straordinario pagato come lavoro ordinario, iuppì! -; lavoro intermittente; job on call “a chiamata”; a progetto; tranne quello che si vorrebbe, ossia quello a tempo indeterminato, mediamente duraturo e dignitosamente retribuito), che puoi fare? A parte rimanere impenitente da mamma e papà o persuadere il tuo partner che diventare due cuori e una capanna è, tutto sommato, romantico? Domandona: e qual è quel lavoro che, sotto le sporche sembianze di un’oasi occupazionale, riflette a menadito la situazione di precariato economico e sociale su cui versa oggi la stragrande maggioranza dei neodiplomati e, ciò che è peggio, neolaureati della nostra generazione?
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Non ci sono dubbi: il call center (o contact center). Per i non addetti ai lavori, il call center è, più o meno, una struttura organizzata con risorse umane specializzate (giovani ruspanti, in genere sui 25-30 d’età, con doti spiccate d’ascolto, working group, e capacità di problem solving, in grado d’imparare velocemente grandi quantità di dati, per poi sentirsi dire, quando meno te lo aspetti: “Ehi bello, non ci servi più!”) e risorse tecnologiche integrate (computer, fax, telefoni di rete fissa e cellulari, il web, mailing ossia la posta, sms) che gestisce contatti multimediali inbound (in entrata) o outbound (in uscita) tra un’azienda e i suoi clienti o utenti (ad esempio gli abbonati ai servizi di quell'azienza), ma soprattutto quelli, ancora ignari, che "farebbero bene" a diventarlo perché le promozioni sono "troppo vantaggiose"! Si lavora per quattro, sei, otto ore al giorno, per cinque euro lordi l’ora (ma anche molto meno, il che significa che il collaboratore domestico di tua madre se la ride sotto i baffi), in postazioni di lavoro standard: sedia, telefono, computer e nient’altro. Guai a scarabocchiare in un foglio, divagando un attimo o, peggio ancora, a scrivere un sms breve, stile “sono distrutta”, al tuo ragazzo, perché in quegli istanti non produci e l’azienda “non può permetterselo”. Che solo a rifletterci, e soprattutto a pensare alle facce e agli occhi persecutori, sotto la falsariga simpatica e amichevole e viscidamente maliziosa (chi è donna lo sa bene), che mostrano i team leader - almeno a Palermo, vien fuori il piromane e/o il violento che è in te.

Balarm.it ha discusso dell’argomento con Claudio Cugusi (nella foto), un trentaseienne cagliaritano di nascita e sardo di formazione, un avvocato atipico che ha scelto di fare il giornalista, “perché a leggere la vita degli altri e anche la propria” c’è, probabilmente, più gusto. Ha iniziato all’Unione Sarda come collaboratore esterno nel 1986, ha proseguito fondando nel 2004 il Giornale di Sardegna, e dal 2000 è addetto stampa del Consiglio regionale. Nel mezzo, tante collaborazioni, molti viaggi costruttivi, qualche libro-inchiesta. Fra cui, l’ultimo saggio di denuncia “Call center. Gli schiavi elettronici della new economy” (Fratelli Fritti, euro 10). Non ci siamo lasciati sfuggire lo spunto per approfondire il tema.

Dati alla mano, lei che li ha…
«Innanzitutto diamoci del tu che mi pare, tra essere umani, la forma più semplice».

Vada per l’essere umani, e per il tu. Tu che hai ampiamente studiato il mondo dei call center, raccontaci di questo fenomeno ormai inarrestabile. Come nasce?
«Nasce dalla globalizzazione economica, come tante altre brutte cose che ci circondano. Nasce perché questa società che altri, non noi, stanno costruendo, si fonda sempre meno sulla natura e sui beni tangibili. E sempre più è drogata dal mito dei servizi, della tecnologia e del non-lavoro materiale».

Il fenomeno come si è espanso nel nostro Paese?
«Esattamente come altrove nell’Europa occidentale e negli Usa, dov’è sbocciato. Però da noi ha trovato un terreno di coltura fertilissimo in quella politica, in quei settori dell’economia e dell’impresa che in nome dell’aumento (vero o dichiarato) dei posti di lavoro ha sacrificato i diritti dei lavoratori. Fino a negarli del tutto».

Esatto. Qual è l’identikìt del lavoratore medio dei call center italiani?
«Un trentenne con la laurea al Centro e al Sud, uno studente universitario di 25 anni che deve mantenersi all’Università al Nord, una casalinga che non ce la fa più con lo stipendio del marito e pensa di tenersi occupata con un piccolo lavoro».

Per il tuo saggio di denuncia non potevi scegliere sottotitolo più appropriato: “schiavi elettronici della new economy”. In un’Italia che è diventata sempre più flessibile si è, invero, tutti precari e licenziabili. I rapporti di lavoro sono sempre più spersonalizzati e si ha l’impressione d’essere diventati quasi dei numeri.
«Siamo proprio numeri, scusa sei ti correggo. Numeri precari di lavoratori precari oggi e di pensionati precari domani, con così pochi contributi versati. Ecco perché bisogna invertire la rotta, cominciando dall’abrogazione della legge Biagi-Maroni, la legge 30 appunto. E va abrogato anche il pacchetto Treu. Insomma, torniamo al vecchio e sano statuto dei lavoratori che poco piace agli imprenditori con la coscienza sporca e poco piace a quanti, dentro la politica, anche nel centrosinistra, pensano che li si debba osannare e ringraziare per quello che fanno. Io ringrazio un imprenditore che dà lavoro esattamente quanto ringrazio un lavoratore. Non vedo perché genuflettersi davanti a chi produce capitale pagando il lavoro altrui. Ma è un altro effetto di una malattia dolorosissima che in Italia si chiama berlusconeria cronica e che non colpisce soltanto il centrodestra, sia chiaro».

E che dire del mobbing, in questo settore? Un malessere che difficilmente arriva al giudice, e che finisce con delle belle litigate, e poi chi s’è visto s’è visto. Per meglio dire: il dipendente/call center cambia azienda, e il datore di lavoro lo rimpiazza subito, subito.
«E’ un altro problema correlato al tipo di mondo che descrivo. Esiste e non è facile trovare strumenti giuridici efficaci e tempestivi per farlo emergere. Spero che il nuovo Parlamento se ne occupi, insieme alle altre mille cose che dovrà fare».

Ce lo auguriamo anche noi. Ma com’è la situazione in Sardegna?
«Io sono partito dalla Sardegna in quest’inchiesta, perché c’era un’azienda con contributi pubblici per otto milioni di euro e non pagava gli stipendi da 14 mesi. Un caso conclamato, terribile. Ma poi ho scoperto che dappertutto è così: ci sono aziende serie, al di là del tipo di lavoro che comunque è agghiacciante, specie quando chiami per vendere. E ci sono moltissime aziende farlocche, anche in Sicilia, dappertutto, che non è nemmeno serio definire aziende. Sono scantinati dove un lavoratore prende due euro l’ora, per capirci. In Francia la protesta contro il contratto di primo ingresso, il Cpe, ha portato a una sollevazione popolare, di piazza. Qui, con la legge Biagi-Maroni, che è molto ma molto peggio del Cpe, nessuno dice nulla».

Cosa fare?
«Occorre più coscienza sociale e generazionale, ci vuole più sindacato, più organizzazione nella contestazione. Prendiamo a modello i ragazzi e i lavoratori francesi: ancora una volta stanno tracciando una strada, di diritti e di giustizia sostanziale, che supera le frontiere».

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