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“Hero”: il combattimento diventa estetica

“Hero” è un punto di svolta: segna la prevalenza della forma sul contenuto

  • 18 ottobre 2004

Hero
Cina/Hong Kong 2002
Di Zhang Yimou
Con Jet Li, Tony Leung, Maggie Cheung, Zhang Ziyi, Donnie Yen

Verrebbe da dire meglio tardi che mai. Dopo più di due anni “Hero”, il film più costoso della storia del cinema cinese (30 milioni di dollari di budget, 300 persone coinvolte nella realizzazione e 150 giorni di riprese), viene finalmente distribuito nelle sale italiane. Un ritardo che ha dell’inspiegabile, se si pensa che il kolossal di Zhang Yimou ha sbancato ai botteghini francesi e di altri paesi europei e che in Italia ha ottenuto un ottimo successo un altro film dello stesso genere, “La tigre e il dragone” di Ang Lee. E invece per approdare nel nostro paese (e anche in USA) c’è stato bisogno di una spintarella dell’appassionato Quentin Tarantino (nei trailer il suo nome sostituisce quello di Yimou, generando peraltro confusione negli spettatori). Comunque sia, l’attesa è stata ampiamente ripagata. La curiosità era tanta, soprattutto perché il pluri-premiato regista cinese, da sempre autore di opere socialmente impegnate e di taglio quasi neorealista, si cimenta qui per la prima volta con il “wuxiapian”, termine che designa un particolare genere di “cappa e spada” tipico della cinematografia orientale. In questo caso il soggetto prende spunto dalla storia di Qin Shihuang, il primo re che unificò la Cina, e di alcuni guerrieri che tentano di assassinarlo.

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Yimou non perde l’essenza prima del suo cinema e la pulizia di linguaggio, ma il cambiamento di registro è sbalorditivo. “Hero” è un punto di svolta: segna la prevalenza della forma sul contenuto. I temi, i personaggi, gli oggetti, tutti gli elementi della storia (la guerra, la scrittura, la musica) si fondono in un gioco di corrispondenze e diventano parte di un processo di astrazione che le trasforma in forme geometriche, spazi e ritmi. I combattimenti sono in realtà danze coreografiche in cui i gesti hanno la grazia e la stilizzazione di un ideogramma perfetto. Le diverse sfumature cromatiche dell’immagine connotano simbolicamente gli episodi della trama (merito anche dell’incredibile fotografia di Christopher Doyle).

Tutto questo senza rinunciare alle regole e alle convenzioni del film commerciale, con qualche strizzata d’occhio anche al cinema occidentale (con riferimenti sparsi che vanno da “L’ultimo imperatore”, a “Matrix”, al “Signore degli anelli”) e con un cast pieno di star internazionali (gli straordinari Jet Li, Tony Leung, Maggie Cheung e Donnie Yen su tutti). Il cambio di rotta del regista di “Lanterne rosse” e de “La storia di Qiu Ju” ha fatto discutere ancora di più per il messaggio filo governativo che trasmetterebbe il film, riassunto nel motto epigrafico “tutti sotto uno stesso cielo”, secondo il quale un regime, anche se oppressivo, è necessario per difendere l’ordine e la legge. Questo è in realtà solo uno dei messaggi possibili, il più evidente. Il film è suscettibile a diverse chiavi di lettura e diversi punti di vista (come suggerisce palesemente la struttura della storia, costruita sul modello di “Rashomon”). Ogni visione è legittima, anche quella degli sconfitti (si veda ad esempio lo stoicismo della scuola di calligrafia che difende fino all’ultimo il valore del sapere).

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