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“In my country”, qualche speranza ancora c’è

Se da una parte lo spettatore rimane stordito dalle violenze compiute dai bianchi, dall’altra quello che cresce è l'ammirazione per la popolazione del Sudafrica

  • 31 maggio 2004

In my country
Regno Unito, Sud Africa 2003
Di John Boorman
Con Samuel L. Jackson, Juliette Binoche, Brendan Gleeson

In un momento difficile come quello che stiamo vivendo oggi  sempre più invischiati in guerre quasi “sante” (le crociate non finiscono mai), di “liberazione” (definibili semplicemente di occupazione), missioni di pace che celano invece un atto di grave incostituzionalità (in base alla sua Costituzione l’Italia non può dichiarare guerra a nessun paese), il bel film di John Boorman “In my country” consente una profonda riflessione sulla lezione di  grande umanità che un popolo così profondamente colpito, il popolo degli africani del sud, riesce a darci, una lezione sul perdono. Il film, ambientato in Sudafrica nel dopo Apartheid ai tempi delle udienze della Commissione per la verità e la riconciliazione, racconta e degli orrori lì confessati e, in quel drammatico contesto, dell’incontro di due giornalisti, uno del Washington Post, afroamericano ben consapevole del perdurare ancora del razzismo in America e nel mondo, interpretato da S. Jackson, mandato lì dal suo editore per rintracciare il più famoso torturatore della polizia Afrikaner, il colonnello De Jageer, l’altra una poetessa  Afrikaner (J. Binoche) che segue quelle confessioni terribili per conto di una radio.

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Se da una parte lo spettatore rimane stordito dalla violenza delle efferatezze compiute dai bianchi, tali da condurre la poetessa quasi a rinnegare la sua razza, dall’altra quello che cresce a dismisura è la profonda ammirazione per la popolazione di colore del Sudafrica, capace di un sentimento così alto quale quello del perdono. Se oggi si ha sempre maggiore familiarità col “brutto” (dell’anima, in senso etico),  dagli orrori della guerra alla oscura crudeltà del quotidiano familiare, è invece del “bello” che, dovendo molto faticare per trovarlo, sentiamo un gran bisogno: ci sembra che di questo si possa parlare riferendoci a quanto il film ci mostra, quella speranza di salvezza per l’umanità che forse ancora c’è e che ci arriva dalla grande la cultura di quel popolo (l’educazione a non sentirsi “soli” su questa terra, per esempio). Molto belle le riflessioni della Binoche mentre scorrono le immagini affascinanti dei paesaggi del suo “country”, così profondamente ferito. Probabilmente al momento della preparazione del film non si pensava che la tortura sarebbe stato un tema di così misera attualità e comunque ci piace notare come il film sia stato prodotto da Gran Bretagna, Irlanda e Sudafrica. Aggiungiamo una nota al margine: il sapere e non fare nulla è esso stesso una colpa.

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