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"Miami Vice", l’azione nell’era digitale

  • 16 ottobre 2006

Miami Vice
U.S.A. 2006
di Michael Mann
con Colin Farrell, Jamie Foxx, Gong Li, Naomie Harris

Non c’è spazio neanche per i titoli di testa. “Miami Vice” ti prende e ti risucchia subito, ti assorbe nel suo mondo senza un attimo di respiro. Ti siedi ed eccoti già catapultato in una discoteca sudaticcia, luci offuscate, corpi struscianti. I personaggi bagnati dai neon sfrecciano a trecento l’ora per le superstrade con palme di Miami e tu sei sul sedile accanto a loro. Non c’è spazio per le pause o per i tempi morti, anche nell’attesa. Pure l’intimità è un abbraccio serrato e torrido, la telecamera epidermica ci getta tra i corpi, imbastisce un’orgia collettiva attori-spettatori e ci impregna di una sensualità non vista di recente sullo schermo.

I sacchi di cocaina ci piovono in testa, i proiettili ci esplodono sulla faccia e ci rimbombano nelle cervella. Il cinema di Mann è materico, tridimensionale, videoludico, immersivo; la grana deliberatamente sporca delle sue immagini è una macchia di colore quasi espressionista: cinema verité che diventa iperrealista per accumulazione. Il regista di “Heat” e “Collateral” si conferma il più ispirato, rivoluzionario (l’unico?) regista d’azione hollywoodiano contemporaneo.

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Qua non si tratta di blockbuster: il suo è un vero e proprio stile d’autore, una visione coerente e consapevole, una riflessione sulla possibilità di fare film nel terzo millennio. Le immagini di “Miami Vice” sembrano più vere del vero, la macchina a mano, lo zoom incerto e traballante, i corpi braccati senza tregua, la fotografia digitale (dell’eccezionale Dion Beebe, già al lavoro in “Collateral”), l’estetica da real tv. Eppure non potrebbe esserci finzione più grande, non solo perché banalmente siamo nel territorio della fiction, ma soprattutto perché ci troviamo nell’universo ultrapatinato di Sonny e Rico, i due poliziotti modaioli e ferraristi che più icasticamente di chiunque altro hanno rappresentato l’edonismo culturale e catodico degli anni Ottanta. Per Mann, che ha ideato, prodotto e occasionalmente scritto la serie televisiva dei “Miami Vice”, è un ritorno alle origini. Ma anche una cesura col passato.

Così non mancano le concessioni alla tamarraggine – in una scena Sonny (Colin Farrell) per conquistare la bella manager della droga Isabella (Gong Li) l’accompagna su due piedi a Cuba in motoscafo per bersi un mojito, spadroneggiando con volante e cambio come se stesse pilotando un’auto da corsa – ma tutto è avvolto da una cappa più cupa e grigiastra (“Collateral” non è venuto invano…), più violenta e opprimente (anche se va detto che gli ultimi episodi televisivi prendono una piega decisamente più realista e affrontano come nel film la piaga della cocaina).

Tutto assolutamente vero, quindi, ma anche tutto assolutamente falso. Ciò che vediamo (nel film, nel mondo) non ci appare mai senza mediazioni, ma sempre filtrato da schermi, video, computer, display. La realtà ci arriva per concessione della tecnologia, parliamo e ascoltiamo tramite telefoni, cimici, radiotrasmittenti. “Miami Vice” è l’unico action possibile nell’epoca digitale, un prototipo di neocinema nell’era della visione dominata dallo schermo.

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