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Saimir, alla ricerca di un riscatto possibile

  • 9 maggio 2005

Saimir
Italia, 2004
Di Francesco Munzi
Con Mishel Manoku, Xhevdet Feri, Lavinia Guglielman, Anna Ferruzzo

Saimir e il padre Edmond, albanesi, vivono sul litorale laziale mantenendosi con espedienti ricavati da loschi traffici alle spalle di ingenui conterranei che toccano infreddoliti le coste italiane. “Com’è l’Italia?”, chiedono continuamente a Saimir i clandestini appena arrivati, e lui non può che opporre loro il suo sguardo muto e beffardo, triste e forse al contempo invidioso nei confronti di chi ha ancora una qualche forma di speranza quando lui, malgrado la giovanissima età, le ha già perse tutte. Il ragazzo guarda perennemente di sbieco, diffidente verso il padre e verso tutti: uno sguardo obliquo per la sua età, per il suo essere straniero e clandestino. Il regista non vuole proporre un’analisi sociologica della condizione dell’immigrato, ma intreccia i percorsi etnico e generazionale creando una storia in cui non si addentra in profondità, ma in cui l’essere superficiali è più una questione di pudore che non sinonimo di pressapochismo. Saimir viene coinvolto in storie più grandi di lui: non gli è permesso essere giovane come gli studenti italiani che vede divertirsi sulla spiaggia. Ha delle responsabilità verso la sua famiglia residuale, marginale. Si ritrova a rubare in una villa insieme ad altre giovani vite perdute e il furto diviene una danza, gli occhi sgranati su piscine e pellicce, pianoforti, oggetti irreali, soltanto sognati, da consegnare subito al capo per una magrissima ricompensa. Saimir è un diffuso nome albanese che significa “il giusto”.

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A tutti Saimir oppone il suo essere diverso, il suo avere una radice di onestà che deve quotidianamente soffocare per aiutare il padre, guadagnare qualche soldo rubacchiando qua e là. Ma vive i suoi errori e la sua devianza senza ipocrisie, ed è questo che rimprovera agli altri. E soprattutto al padre che vuole sposare un’italiana tradendo il ricordo della madre, che vuole guadagnarsi il benessere agendo lateralmente nei traffici di giovani ragazze che col sogno di Milano si ritrovano sbattute sulla strada. Munzi ha conquistato col suo lungometraggio d’esordio la "Menzione Speciale Opera Prima" all’ultimo Festival di Venezia. Il suo è un film denso e asciutto, che evoca immediatamente le inquadrature dei fratelli Dardenne, a cui li accomuna l’interesse per le storie di giovani esistenze a rischio. E qui sta forse il maggior difetto del film, nel ripercorrere un po’ troppo dappresso i passi della "Promesse", opera dei fratelli belgi del 1996, in cui ritroviamo una storia molto simile, specie per la coppia dei protagonisti, un padre e un figlio implicati in affari di immigrazione clandestina. La stessa inquadratura del ragazzo in motocicletta sembra presa direttamente da lì. Ma in "Saimir" rimane impressa la prova di Mishel Manoku (giovane non professionista) e di Xhevdet Feri (lui invece famoso attore albanese) che rappresentano efficacemente un rapporto padre-figlio fatto più di silenzi, fisicità trattenuta e poche parole sempre, inevitabilmente, sbagliate.

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