ITINERARI E LUOGHI
Oltre gli Archi del borgo in Sicilia: respiri aria pura e mangi "i panuzzi di San Brasi"
A 416 metri di altezza, le colline appiattiscono un territorio ricco di colture e di fede. Qui la vita scorre lenta lontana dall’incessante lavoro frenetico delle città
San Biagio Platani in Sicilia
"Tra scinnuti e acchianati, curvi nichi e ranni", il fascino colorato coltiva nuove speranze. Improvvisamente, senza preavviso alcuno, lo sguardo volge a nord. È San Biagio. La zona periferica racconta di una comunità che prova a misurarsi con il cambiamento imposto dal progresso. Lo spopolamento in atto colpisce tutti, nessuno escluso. A 416 metri di altezza, le colline appiattiscono un territorio ricco di colture. L’aria è pura, lontana dall’incessante lavoro frenetico delle grandi città. Il borgo si tinge “a festa".
Gli Archi - di cui tanto si parla - è una tradizione saputa e risaputa. Un evento smisurato, che lascia poco spazio ai fronzoli. Secoli di passione da invidiare. Siamo gelosi di così tanta capacità. Corso Umberto I (un tempo bloccata dalla piccola chiesa del Purgatorio - successivamente demolita) splende agli occhi dei turisti e semplici curiosi dell’ultima ora. I contenuti storici vanno letti in ottica socio- religiosa. Hanno una lunga storia, meritano di essere valutati durante la visita. Noi, imperterriti come sempre, vogliamo scindere i due momenti.
Se della prima si è parlato fin troppo, per un attimo lasciamo l’argomento incustodito e andiamo oltre… la normalità. San Biagio riflette come una stella nuda, con un percorso a sé. La fede tanto vituperata altrove, trova terreno fertile nell’animo e meno nella quantità di edifici presenti. Risalta la Chiesa Madre (ubicata tra Corso Umberto I e Viale della Vittoria). Eretta nel 1635 (non dimenticatevi di questa data), rappresenta il luogo di culto principale.
Un tempo era a unica navata, mentre nei secoli - dopo numerosi interventi di ristrutturazione - ha subito profondi cambiamenti. La bella facciata ottocentesca venne demolita nel 1952 per innalzare l’attuale prospetto. La pietra viva è geniale e condivisa. Risulta suddivisa in due ordini da una cornice di marcapiano. I due ordini perfezionano l’entrata con ingresso principale e la torre campanaria con orologio. Le navate sono (adesso) tre, arricchite da capolavori di Padre Fedele di San Biagio. Opere come il Miracolo di San Biagio, il Martirio di San Fedele e [...]. Spinti dallo spirito di osservazione, andiamo oltre. Entriamo nell’angolo dedicato alle donne. Il silenzio è d’obbligo. Abbassiamo il capo e riflettiamo. Il rosso fuoco è protagonista - insieme ai pensieri - di una persecuzione ormai incontrollabile.
Chiudiamo gli occhi in segno di speranza. E che sia una gran speranza. San Biagio coltiva bontà, la tocchiamo nella gente. Ci mimetizziamo tra essi. Il Palazzo Ducale è una forma nobile per introdurre gli aspetti storici. Quel 1635 (non voglio interrogarvi) suona strano. Molto. Le fonti sono testimoni di una “licentia populandi” concessa. Eppure, il confronto storico è una comunicazione di dati e fatti. A partire dai rinvenimenti di epoca bizantina. Lo scampanellio di quel 1635 risuona strano. Ricerche e approfondimenti indicano di feudi appartenenti alla baronia di Sant’Angelo Muxaro e acquisiti nel 1592 dagli Aragona-Tagliavia di Castelvetrano. Qual è la verità? Entriamo dentro una raffica storica che asseconda la seguente fonte: il centro fu fondato nel 1648 da Don Mariano Gianguercio. E poi si susseguirono le famiglie dei Sidoti, Ioppolo, Spatafora, Pescatore e Bonanno fino al termine del feudalesimo (1812). Esiste un nesso logico? Siamo attendisti.
Il tempo scorre, il languorino è impaziente. Siamo di fronte a una scelta ricca e golosa. Tra “panuzzi di San Brasi”, il “buccellato” e i “cucciddateddi”, la “vutti è china e semu puru mbriachi di cuntintizza”. Il riposo perfeziona la buona volontà. Si riparte alla ricerca del Museo degli Archi di Pasqua. Descrive minuziosamente i passaggi di “sacrificio”. Miniature ed elementi decorativi sono elementi imprescindibili! La passeggiata è un lento ricamo che ci conduce alla Chiesa del Carmine (o Beata Maria Vergine del Carmelo). Della struttura originale del 1640 rimane… il richiamo al neoclassico. Il ritorno è un peregrinare verso gli Archi, dove tutto ebbe inizio. Osserviamo, scrutiamo, fotografiamo i particolari connessi e disconnessi. Dietro al lavoro certosino non manca, di certo, l’impegno delle confraternite de la “Madunnara” e “Signurara”. Elogi a scena aperta. San Biagio appaga le aspettative. Di un borgo solido e identitario. Dopo l’ennesimo scatto, ci sentiamo di appartenere alla comunità di Sammrasi. E mentre ci accingiamo ad andar via, gli echi pasquali stornellano gli ultimi passi in terra sanbiagese.
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