Quel portale magico che tutti vorremmo: il paradosso (reale) di "Sicilia Express"
In Sicilia non c’è lavoro e a Milano uno del Sud non vive bene, per questo l’ideale sarebbe il teletrasporto: la mattina lavori al Nord e il pomeriggio torni nella città natale
Ficarra e Picone in una scena di "Sicilia Express"
Il punto di partenza per l’ultima miniserie Netflix firmata Ficarra e Picone, “Sicilia Express”, è questo, e funziona – in sole ventiquattr’ore il titolo era al numero uno fra i più visti – perché è un problema pesantissimo per il nostro Paese, un problema che sinora non ha conosciuto vere soluzioni e ha solo incontrato i proclami di una politica stagnante (che poi puntualmente si scopre essere stata stagnante soprattutto per tutelare poltrone e coprire inciuci, ma questa è un’altra, lunghissima storia).
È impossibile non rivedersi almeno un po’ nei due infermieri protagonisti, Salvo e Valentino, che la vita ha voluto costretti a fare la spola Milano-Sicilia (la serie è stata quasi completamente girata fra Noto, di cui riconosciamo già nel primo episodio la famosa Porta Ferdinandea, e Avola, che offre a Salvo e Valentino la sua storica tonnara come nascondiglio per il «portale magico» lontano da occhi indiscreti), così com’è impossibile, vivendo lontano da una casa al sud Italia, non avere desiderato, anche solo per un attimo, di avere a disposizione il loro stesso sistema di teletrasporto fra cassonetti per rientrare in famiglia in un istante e senza doversi vendere un rene.
Il Paese che Ficarra e Picone raccontano ancora una volta (“Sicilia Express”, in termini di tematiche, si collega almeno ad altri due film della loro produzione, “Andiamo a quel paese” e “L’ora legale”) è lo specchio dell’Italia attuale, una in cui poco prima delle festività natalizie i prezzi per un volo Milano-Palermo schizzano a «735 euro a persona», come dice Salvo nel primo episodio, e in cui l’unica soluzione per ammortizzare i costi potrebbe essere spendere dodici ore in un giro che parte da Catania e fa scalo prima a Patrasso, poi a Tunisi, quindi a Cracovia infine a Milano.
Qui, è chiaro, al pubblico scatta in automatico la risata, però poi la testa va a pensare: ma che differenza c’è tra la battuta di Ficarra e la realtà che ci si presenta davanti se prenotiamo davvero un volo nel periodo delle vacanze – natalizie, pasquali o estive che siano – diretti dal produttivo Nord al Sud in cui se non abbiamo lasciato controvoglia la città o il paesino in cui si è nati, magari non siamo esattamente felici d’aver lasciato la fidanzata, il marito, i figli o i genitori? Per inciso, giusto in questi giorni, come denuncia il Codacons, i costi d’un biglietto aereo sono saliti del 900%, mentre Assoutenti fa notare che un volo da Torino a Palermo, andata e ritorno, costerebbe 505 euro – cifra che potrebbe essere ammortizzata se fosse veramente possibile alternare, in certi casi, lavoro e smartworking, prenotando mesi e mesi prima senza avere sorprese dal direttore +di turno, o semplicemente calmierando i prezzi dietro precisa e puntuale volontà politica.
La sceneggiatura – firmata sempre dal duo comico, ancora una volta affiancato da Fabrizio Cestaro, Nicola Guaglianone e Fabrizio Testini – non si pone troppe domande su un fronte fantasy/fantascientifico (come funzionano i portali? La piccola Aurora – che tanto ricorda la Dorothy del Mago di Oz – ha dei poteri speciali? Ci sono altri bambini come lei nel mondo? Questi portali magici si sono già aperti in altre epoche? Come si attivano gli eventuali “poteri” di questi bambini prodigio? – e tanto, tanto altro) che possibilmente sarebbe stato foriero di battute ed equivoci in un territorio completamente nuovo per Ficarra e Picone, però è sulla descrizione d’una realtà paradossale che costruisce la sua forza, in certi casi in maniera più esplicita, e altri in modo più implicito.
C’è, ad esempio, nel primo episodio, una frase detta dalla suocera di Valentino (Barbara Gallo), che svela molto dei paradossi in cui l’Italia si ritrova a vivere da quasi trent’anni. Durante l’inaugurazione del negozio di Claudia (Katia Follesa) e Maria Teresa (Barbara Tabita, che torna ancora una volta insieme al duo dopo la sua storica «Marcix» de “Il 7 e l’8”), la suocera dice a Valentino che «uno nella vita è giusto che faccia quello che vuole». La frecciatina al genero è una frase che sarà capitato di sentire in famiglia, soprattutto in quelle che non hanno esattamente larghe vedute, a figli emigrati al nord Italia o – peggio che mai – addirittura in un altro stato del nord Europa, che implicitamente vengono quasi accusati di aver voluto sì lavorare nell’ambito che era loro più congeniale, ma in fondo anche di aver voluto porre una distanza fra il loro futuro e il loro passato, la famiglia d’origine, la comunità che li ha fatti nascere e crescere – quando in realtà quel contrappasso era il prezzo da pagare per ottenere un posto sicuro, costruire il proprio futuro e, magari, anche la propria famiglia.
E qui si apre un altro, grande paradosso, e cioè che sino a venti o trent’anni fa, lasciare il Sud per il Nord era forse un atto d’amore verso la carriera che si sognava, un passo necessario che permetteva di avvicinarsi in maniera più rapida e con successo sicuramente maggiore a carriere notoriamente «difficili», di norma quelle in ambiti umanistici (chi voleva fare arte, o – si pensi al Totò di “Nuovo cinema Paradiso” spronato da Alfredo ad andarsene dalla Sicilia e non tornare più – cinema, o televisione, o radio, o pubblicità, chi voleva lavorare in settori tecnologicamente più avanzati). Se non c’era un’ambizione particolarmente accesa, un fuoco vivo che chiamava a voler fare uno di quei lavori lì, al Sud era possibile lavorare – e costruirsi un futuro – come impiegati, medici, docenti, infermieri o ingegneri, con pratiche e concorsi decisamente meno complessi di quelli con cui oggi ci si deve confrontare.
Oggi, quell’«uno nella vita è giusto che faccia quello che vuole» investe però anche quei «mestieri tradizionali», se così vogliamo definirli, cioè flotte di infermieri, medici, insegnanti, impiegati pubblici e decine di altre categorie che possibilmente, a pari condizioni e con la stessa facilità d’accesso a un impiego a tempo indeterminato, lavorerebbero con più voglia al Sud che al Nord (tanto che poi, se si dà un’occhiata alle graduatorie per la mobilità, passato un periodo di prova in cui non si possono richiedere i trasferimenti, tutti gli emigrati provano, in un modo o nell’altro, a tornare a casa).
Ecco, in “Sicilia Express”, Salvo e Valentino sono proprio parte di quei lavoratori che dal Sud non sarebbero mai andati via se non fosse stato per un posto a tempo indeterminato che solo il Nord, per volere di una classe politica incapace e corrotta, mette a bando. Anche perché, come la serie ribadisce più volte, se al Sud la sanità (così come l’istruzione, e le strade, e la macchina pubblica più in generale) è in condizioni tragiche, è proprio perché manca il personale, i soldi per assumerlo vengono volontariamente dirottati su proclami irrealizzabili (il ponte sullo stretto di Messina, che era già un cavallo di battaglia del duo comico oltre vent’anni fa) e ci si crogiola al sole approfittando di una bella giornata per fare un tuffo a mare anche in pieno dicembre invece di guardarsi allo specchio e sbracciarsi per cambiare dalla base.
Senza voler svelare nulla, l’idea che Ficarra e Picone lasciano però emergere è distante dalla conclusione magari stucchevole a cui si è portati a pensare in un primo momento, e cioè che la Sicilia – e il Sud in generale – sia una terra magica e maltrattata soltanto dalla politica. Se siamo in democrazia – e sino a prova contraria lo siamo – significa che i macchiettistici politici che "giocano" nelle "stanze dei bottoni" sono stati puntualmente eletti dal popolo per mantenere questo sistema: un Sud che pena e un Nord che traina. E che quindi – contrariamente a quanto, nella miniserie, un governo può far passare a reti unificate e con spettacolari operazioni di polizia – quelle stesse manovre scellerate possono essere invertite, metaforicamente, con una matita che disegni (o voti) un’Italia diversa.
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