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Quella "lingua madre" di cui oggi non ti vergogni più: come rinasce il dialetto siculo

Dopo anni in cui è stato messo da parte, Sicilia si vive oggi il bilinguismo. Si applica anche nella scrittura di libri, poesie e odi o per tradurre antichi capolavori

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 15 novembre 2022

Il termine dialetto deriva da un verbo greco e vuol dire parlare. La "parlata popolare" fu a lungo considerata la lingua dei poveri, qualcosa di cui vergognarsi, soprattutto rispetto alla lingua Italiana che fino agli anni Cinquanta, in un contesto di grande analfabetismo, era scritta e parlata da pochi.

Con la sistemazione definitiva dell’Italiano rincominciò l’interesse per il dialetto, sino ad arrivare al 1977, dove con la carta dei dialetti italiani, gli fu restituita dignità. Non più ritenuta una corruzione o variazione dell’italiano, ma analizzata da un punto di vista storico-linguistico, fu riconosciuta come Lingua.

Lavoro lungo e difficile soprattutto in Sicilia, che afflitta da quell’arretratezza strutturale sentiva ulteriormente il peso sociale del poco utilizzo della lingua Italiana. Eppure la ricchezza del siciliano, non ha solo permesso di conoscere un territorio e la sua gente con tradizioni, cultura e storia, ma ha restituito forza e spessore attraverso termini che spesso difficilmente potevano essere tradotti.
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Il travaglio della lingua nazionale è noto, la frammentazione del nostro territorio, spesso terra di conquista, non ha permesso la diffusione di un codice comune. Problema già evidenziato con Dante, Petrarca e Boccaccio, che memori dell’esperienza della Scuola Siciliana, cerarono una lingua di "cultura", sulla base del dialetto fiorentino.

Questo problema della frammentazione linguistica continuò nel Rinascimento risalendo i secoli e storia sino ad arrivare a Manzoni e all’Unità d’Italia. Un’unità che ben sappiamo ebbe difficoltà politiche sociali e di conseguenza anche linguistiche.

L’esigenza di una "parlata comune", fu affrontata imponendo, di fatto, una lingua che all’inizio era solo scritta, quindi, di fatto, una lingua morta, com’era il Latino. L’Italiano era utilizzato dai ceti alti in contesti istituzionali, giuridici, letterari, ma non era una lingua con cui la gente si esprimeva, preferendo relazionarsi con il dialetto.

Questa situazione divenne un problema per i grandi scrittori siciliani tra '800 e '900 che dibatterono su quale lingua usare per le loro opere. Le scelte linguistiche furono dovute dalla necessità di dare ai loro lavori, seppur ambientati in Sicilia, un respiro e un’accoglienza a livello nazionale.

Ma non solo, la lenta stabilizzazione della lingua Italiana rendeva insicuri gli scrittori siciliani, che ravvisano imperfezioni così importanti da scrivere e riscrivere i loro lavori innumerevoli volte. Verga nei "Malavoglia" utilizzerà sia l’elemento regionale che quello nazionale, creando una fusione tra le due lingue.

De Roberto e soprattutto Capuana faranno scelte più radicali, cercando di togliere forme di regionalismo. Ne "I Vicerè" di De Roberto i personaggi arrivano a ingiuriarsi “amorevolmente”, per tutto il romanzo, usando termini italiani. Capuana grande amico di Verga riscriverà varie volte il romanzo "Giacinta" e in una prefazione scriverà: "Pel nostro lavoro avevamo bisogno di una prosa viva efficace adatta a tutte le impercettibili sfumature del pensiero moderno".

Queste parole creano uno spartiacque tra l’Italiano lingua della modernità e il dialetto considerato ormai antico retaggio di una società ignorante e popolare. Capuana vivendo per parecchio tempo lontano dall’isola, scelse per le sue opere un italiano fiorentineggiante colto e curato che porterà ad esempio, un bambino di Niscemi a chiamare “babbo” il padre, e a identificare, in una delle sue fiabe, lo stupido, con il termine "grullo".

Discorso a parte la sua produzione teatrale folklorica dove sceglierà come lingua il dialetto, ricevendo critiche dall’amico Verga. Una Lingua creata da studiosi, inevitabilmente era difficile da usare non solo nel parlato ma anche nello scritto, sempre Capuana la definirà una lingua "diabolica" disseminata d’insidie e trabocchetti, regole e norme, il così detto “Italiano delle maestre".

Solo qualche decennio dopo il '900 gli scrittori siciliani oseranno reintrodurre termini e strutture del dialetto siciliano, e solo alla metà del secolo scorso una volta quasi stabilizzata ed acquisita la lingua Italiana, ritornerà il siciliano, sino ad arrivare Camilleri, che con alcuni termini, inventerà un nuovo dialetto.

Con il ritorno della "lingua madre" sono nate Accademie, lavori teatrali, recuperate canzoni, pubblicati vocabolari Siciliano-Italiano; è nata una produzione letteraria e poetica, superbo il cofanetto delle poesie registrate su vinile da Renzino Barbera, o i lavori di Alamia o della grande Balestrieri, solo per citarne alcuni.

Oggi è un rifiorire del siculo-idioma da Dario che vive da 14 anni in Irlanda e settimanalmente produce su youtube documentari e "cunti"; Angela che scrive in splendidi versi siciliani; Gianluca che alterna nei suoi scritti il siciliano e l’italiano, o “Zingaro” che studia il siciliano da anni, e compone e traduce Odi, fino ad arrivare a un professore che in questo momento sta trasportando "titanicamente" in Siciliano, la "Gerusalemme Liberata".

Riscoperto l’orgoglio di parlare in siculo, affrancati dall’idea che il dialetto possa ancora essere un ostacolo nell’apprendimento dell’italiano, liberati anche della vergogna che la vedeva come lingua di poveri e ignoranti, in Sicilia si vive quotidianamente il bilinguismo, alternando, cambiando, commutando siciliano e Italiano secondo i contesti. È una rivoluzione culturale che restituisce orgoglio e dignità e rende più viva che mai la lingua delle tradizioni, della cultura, della storia e degli affetti.
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