Sui grattacieli con la Sicilia nel cuore: così Chico salì in cima all’Empire State Building
Alla veneranda età di 93 anni, nel 2005, concluse la sua diciassettesima impresa con un tempo di 49 minuti e 28 secondi. Dopo poco ci lasciò. Vi raccontiamo la sua storia

Chico Scimone a New York
C’è un uomo che ha affrontato i grattacieli di New York come se fossero i tornanti dell’Etna, con la stessa tenacia dei contadini che sfidano il sole cocente nei campi di Sicilia.
Il suo nome era Chico Scimone. Nato a Boston il 17 novembre 1911 da una famiglia di emigranti, tornò in Sicilia ancora bambino. È a Taormina, tra la vista azzurra del mare e il profilo scuro del vulcano, che crebbe e che si fece uomo.
E proprio lì, nel silenzio tagliente delle albe isolane, sviluppò quel carattere schietto e temprato che l’avrebbe reso un atleta fuori dal comune, una leggenda dell’ostinazione, della passione, del coraggio. Non era soltanto un maratoneta dell’età. Era pianista, direttore d’orchestra, sportivo per vocazione e per missione, ma soprattutto era siciliano.
Lo era profondamente, nei gesti, nella voce, nei colori che portava con sé come una bandiera. La sua storia ha dell’incredibile: per 17 anni consecutivi, dal 1984 al 2005, ha partecipato alla mitica Empire State Building Run-Up, la gara che porta gli atleti a salire a piedi 1.576 gradini fino all’86° piano del grattacielo simbolo di Manhattan.
Chico iniziò questa impresa a 72 anni e la concluse a 93, poco prima di morire. Chi lo incontrava negli ascensori dell’Empire non vedeva un vecchietto fragile: vedeva una figura minuta ma determinata, vestita spesso con i colori della bandiera italiana, con una fascia tricolore sulla fronte e il sorriso fiero.
Non correva per vincere, correva per testimoniare. E ogni gradino, ogni passo, era un tributo alla Sicilia, alla sua terra, alla possibilità concreta di non arrendersi mai. Nel 1984, alla sua prima gara, impiegò 21 minuti e 13 secondi per arrivare in cima.
Un tempo che per molti sarebbe stato già una prodezza. Ma lui non si fermò. Ogni anno tornava a New York, in inverno, quando l’aria era tagliente e la città sembrava voler respingere gli audaci. «If I get to the top, I’m Ok» diceva ai giornalisti americani con il suo accento inconfondibile.
Salire quei 1.576 gradini non era solo uno sforzo fisico, era un check-up spirituale. Era il suo modo di dire al mondo: sono ancora vivo, e lo sono con tutta la mia anima.
Alla veneranda età di 93 anni, nel febbraio del 2005, concluse la sua diciassettesima scalata con un tempo di 49 minuti e 28 secondi. Qualcuno si preoccupò: e se non ce la facesse più? Ma lui, con la tranquillità di chi conosce il senso della sfida, rispose: «Always look forward… you can start to do things».
Aveva l’animo di un ragazzo e la memoria profonda di un uomo che non ha mai dimenticato da dove veniva. Quel “dove” si chiamava Taormina. La sua cittadina lo vide fondare il “Taormina Athletic Club” nel 1974 e lanciare un’altra impresa simbolica: il tuffo a mare del primo gennaio, un gesto di rinnovamento, coraggio e speranza che ancora oggi molti ripetono.
Ogni impresa, ogni idea, ogni traguardo era per lui un modo per restituire qualcosa alla Sicilia, come se volesse dire: vi porto nel cuore anche quando salgo i grattacieli di vetro, anche quando mi tuffo nell’oceano del mondo.
Per i newyorkesi era "il nonno d’acciaio", per i siciliani era l’orgoglio di una terra tenace e poetica, capace di donare al mondo uomini come lui.
Alla sua morte, il grattacielo si illuminò con i colori della bandiera italiana, in suo onore. Un evento eccezionale. Nessun altro italiano, nessun altro atleta amatoriale, nessun altro uomo così anziano aveva mai ricevuto un tributo tanto potente da uno dei simboli dell’America. Eppure, Chico Scimone non aveva mai davvero lasciato l’Italia.
La portava dentro. La Sicilia era la sua forza, il suo “allenamento” spirituale, la sua musica interiore. Quelle albe su Taormina, quel mare che ti chiama e non ti lascia, quei profumi forti di fichi e limoni: tutto questo era salito con lui, gradino dopo gradino, fino all’86° piano dell’Empire.
Non ha mai cercato fama, medaglie o copertine. Cercava il limite, e con lui la bellezza di superarlo, anno dopo anno. Era un inno vivente alla vitalità, alla perseveranza e alla gioia di chi ama la vita anche quando gli anni sembrano dire il contrario.
E come tutti i veri uomini di sport, era anche un poeta silenzioso, che diceva le cose con il corpo, con l’esempio. Chico Scimone ha sfidato il tempo. Ha scalato l’impossibile. E lo ha fatto con lo spirito leggero di un ragazzo e la dignità di un vecchio saggio.
Oggi, se cammini a Taormina, qualcuno ancora lo ricorda con rispetto e un pizzico di commozione. Perché certi uomini non muoiono: restano nei gesti, nei racconti, nelle sfide che ispirano.
E continuano, in silenzio, a salire. Gradino dopo gradino.
Il suo nome era Chico Scimone. Nato a Boston il 17 novembre 1911 da una famiglia di emigranti, tornò in Sicilia ancora bambino. È a Taormina, tra la vista azzurra del mare e il profilo scuro del vulcano, che crebbe e che si fece uomo.
E proprio lì, nel silenzio tagliente delle albe isolane, sviluppò quel carattere schietto e temprato che l’avrebbe reso un atleta fuori dal comune, una leggenda dell’ostinazione, della passione, del coraggio. Non era soltanto un maratoneta dell’età. Era pianista, direttore d’orchestra, sportivo per vocazione e per missione, ma soprattutto era siciliano.
Lo era profondamente, nei gesti, nella voce, nei colori che portava con sé come una bandiera. La sua storia ha dell’incredibile: per 17 anni consecutivi, dal 1984 al 2005, ha partecipato alla mitica Empire State Building Run-Up, la gara che porta gli atleti a salire a piedi 1.576 gradini fino all’86° piano del grattacielo simbolo di Manhattan.
Chico iniziò questa impresa a 72 anni e la concluse a 93, poco prima di morire. Chi lo incontrava negli ascensori dell’Empire non vedeva un vecchietto fragile: vedeva una figura minuta ma determinata, vestita spesso con i colori della bandiera italiana, con una fascia tricolore sulla fronte e il sorriso fiero.
Non correva per vincere, correva per testimoniare. E ogni gradino, ogni passo, era un tributo alla Sicilia, alla sua terra, alla possibilità concreta di non arrendersi mai. Nel 1984, alla sua prima gara, impiegò 21 minuti e 13 secondi per arrivare in cima.
Un tempo che per molti sarebbe stato già una prodezza. Ma lui non si fermò. Ogni anno tornava a New York, in inverno, quando l’aria era tagliente e la città sembrava voler respingere gli audaci. «If I get to the top, I’m Ok» diceva ai giornalisti americani con il suo accento inconfondibile.
Salire quei 1.576 gradini non era solo uno sforzo fisico, era un check-up spirituale. Era il suo modo di dire al mondo: sono ancora vivo, e lo sono con tutta la mia anima.
Alla veneranda età di 93 anni, nel febbraio del 2005, concluse la sua diciassettesima scalata con un tempo di 49 minuti e 28 secondi. Qualcuno si preoccupò: e se non ce la facesse più? Ma lui, con la tranquillità di chi conosce il senso della sfida, rispose: «Always look forward… you can start to do things».
Aveva l’animo di un ragazzo e la memoria profonda di un uomo che non ha mai dimenticato da dove veniva. Quel “dove” si chiamava Taormina. La sua cittadina lo vide fondare il “Taormina Athletic Club” nel 1974 e lanciare un’altra impresa simbolica: il tuffo a mare del primo gennaio, un gesto di rinnovamento, coraggio e speranza che ancora oggi molti ripetono.
Ogni impresa, ogni idea, ogni traguardo era per lui un modo per restituire qualcosa alla Sicilia, come se volesse dire: vi porto nel cuore anche quando salgo i grattacieli di vetro, anche quando mi tuffo nell’oceano del mondo.
Per i newyorkesi era "il nonno d’acciaio", per i siciliani era l’orgoglio di una terra tenace e poetica, capace di donare al mondo uomini come lui.
Alla sua morte, il grattacielo si illuminò con i colori della bandiera italiana, in suo onore. Un evento eccezionale. Nessun altro italiano, nessun altro atleta amatoriale, nessun altro uomo così anziano aveva mai ricevuto un tributo tanto potente da uno dei simboli dell’America. Eppure, Chico Scimone non aveva mai davvero lasciato l’Italia.
La portava dentro. La Sicilia era la sua forza, il suo “allenamento” spirituale, la sua musica interiore. Quelle albe su Taormina, quel mare che ti chiama e non ti lascia, quei profumi forti di fichi e limoni: tutto questo era salito con lui, gradino dopo gradino, fino all’86° piano dell’Empire.
Non ha mai cercato fama, medaglie o copertine. Cercava il limite, e con lui la bellezza di superarlo, anno dopo anno. Era un inno vivente alla vitalità, alla perseveranza e alla gioia di chi ama la vita anche quando gli anni sembrano dire il contrario.
E come tutti i veri uomini di sport, era anche un poeta silenzioso, che diceva le cose con il corpo, con l’esempio. Chico Scimone ha sfidato il tempo. Ha scalato l’impossibile. E lo ha fatto con lo spirito leggero di un ragazzo e la dignità di un vecchio saggio.
Oggi, se cammini a Taormina, qualcuno ancora lo ricorda con rispetto e un pizzico di commozione. Perché certi uomini non muoiono: restano nei gesti, nei racconti, nelle sfide che ispirano.
E continuano, in silenzio, a salire. Gradino dopo gradino.
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