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Un tempo a Palermo per qualcuno era Eldorado: ci trovavi "Loro della munnizza"

Proiettato di recente a "Voci dal silenzio" un documentario del 2011 che racconta un lavoro umile e durissimo, che ai "cenciaioli" però piaceva. Ve lo raccontiamo

Tancredi Bua
Giornalista
  • 9 settembre 2025

Una scena da "Loro della munnizza"

Il problema della «munnizza», a Palermo, sta sulla stessa pagina del johnnystecchiniano «ciaffico». Una calamità atavica, che cala ombrosa sulla città, dalla discarica di Bellolampo, come su Catania calano quasi quotidianamente le nebbie fumose dell’Etna.

Gli antichi greci raccontavano il mito di Efesto, che costruiva le armi degli dèi nelle viscere dell’Etna e di altri vulcani. Tra le fucine del dio greco non potrebbe sicuramente rientrare monte Cuccio – che non è, appunto, un vulcano – ma la sua vetta, in particolare fra gli anni Cinquanta e Ottanta, sprigionava la stessa, intossicante, nube nera delle eruzioni vulcaniche.

Erano i rifiuti che bruciavano a Bellolampo, quasi ogni sera, avvolgendo la città in nuvole di diossina tossica e altre centinaia di velenosi prodotti di scarto della combustione.

Capitava, in quegli anni, di vedere muovere, tra le centinaia di tonnellate di rifiuti maleodoranti, i cosiddetti «cenciaioli», i "raccoglitori" d’immondizia che in mezzo alle carcasse di vecchi elettrodomestici e gli avanzi di cibo eruttati dai sacchetti in plastica rinforzata, trovavano il loro oro.

La storia di questa piccola Eldorado è raccontata da «Loro della munnizza», il documentario datato 2011 e diretto da Marco Battaglia, Gianluca Donati, Laura Schimmenti e Andrea Zulini, che il 2 settembre è stato proiettato a Capaci, in piazza Matrice, all’interno della manifestazione culturale Voci dal silenzio.

La manifestazione è organizzata dal Comune di Capaci, a cura dell’assessora alla Cultura, Fiorenza Giambona, con il patrocinio dell’Assessorato regionale della cultura e dell’identità siciliana.

Loro della munnizza si concentra sulla storia di Gabriele Dulcetta, uno degli ultimi cenciaioli, e alla generazione di raccoglitori che lavorava con lui sulle alture di Bellolampo. Gabriele, come racconta nei primi momenti del documentario, già da bambino arrivava insieme al padre nella grande discarica, ai tempi non ancora recintata, e si metteva a giocare a pallone.

«Giocavo e contemporaneamente – dice all’inizio del film – iniziavo a intraprendere il mestiere, iniziavo a imparare quello che mio padre mi dava di lezione per fare questo lavoro, perché poi dovevo continuare l’attività».

Era un lavoro umile e durissimo, svolto senza alcuna «messa in regola», che ai cenciaioli però piaceva. Nonostante i rischi, nonostante la «grascia» in cui erano costretti a muoversi.

Si lavorava con i bidoni, un grande sacchetto in mano, e ai piedi gli anfibi, a sua volta avvolti in maglioni di pezza, per evitare che negli stivali entrassero terra o rifiuti.

«Si camminava, e camminava, e camminava, si raccoglieva, e si lavorava, ora – raccontava Gabriele Dulcetta oltre quindici anni fa – quest’attività non è più così». C’era, fra i cenciaioli, chi raccoglieva esclusivamente il legno, chi il ferro, chi solo il rame, l’«oro rosso», preziosissimo e negli ultimi anni costantemente rubato dagli impianti d’illuminazione in giro per Palermo.

E poi, ancora, chi si occupava di raccogliere l’alluminio e altri materiali metallici, chi si dedicava alle apparecchiature elettriche ed elettroniche: lavatrici, frigoriferi, scaldabagni, televisori, smontandoli direttamente in discarica per estrarre ricambi «da rivendere al riuso».

In altri casi – uno, che riguarda il ripristino di un vecchio grammofono abbandonato tra i cassonetti, è ben documentato in «Loro della munnizza» – si recuperavano tesori: un cenciaiolo, in una giornata particolarmente fortunata, trovò una valigetta che conteneva trenta milioni di lire. Che, per dirla alla Sperandeo ne «Il 7 e l'8», «all'epoca unn'eranu miliuna. Eranu miliaiddi».

La storia del mestiere dei raccoglitori abbraccia un arco di tempo che va dalla prima metà degli anni Cinquanta alla fine dei Novanta, il 1996 per la precisione, anno in cui «mio zio, Pietro Mineo – racconta nel documentario Gabriele Dulcetta – è morto schiacciato da una pala meccanica, un Bomag».

Da allora, i cenciaioli vennero buttati fuori dalla discarica di Bellolampo e si trasferirono tutti in città. Prima di quel giorno, però, salivano «ogni sera, al calare del sole – come racconta anche il fotografo Franco Lannino – , perché così trovavano più fresco» tra gli ammassi di rifiuti.

Alcuni di loro, secondo alcune ricostruzioni, vivevano a cortile Cascino, il «Pozzo della Morte» nel centro storico di Palermo, o dalle «Casuzze» di viale Regione Siciliana, quartieri degradati con case cadenti e a volte prive di allaccio all’acqua.

Altri, soprattutto negli ultimi tempi, quando le Casuzze erano ormai state smantellate, vivevano a Borgo Nuovo o nelle borgate di più recente costruzione.

A raccontarli potrebbero sembrare usciti dalla cricca di vagabondi che il personaggio interpretato da Robin Williams trascina con sé per New York in «La leggenda del re pescatore» o i misteriosi seguaci di Pinguino/Danny DeVito che abitano le fogne e riciclano ciò che la città di Gotham butta via per lo sciacquone in «Batman – Il ritorno», di Tim Burton.

Però con questo lavoro, come spiega Gabriele Dulcetta nel documentario, ci si tiravano su intere famiglie. Così aveva fatto suo padre, e le generazioni passate, che avevano tramandato il titolo di «cenciaiolo» quasi per eredità, come si farebbe con un’azienda di famiglia.

«A Bellolampo si faceva mala vita», si viveva male, «ma si campavano le famiglie», racconta un altro cenciaiolo di "Loro della munnizza".

Uno dei “raccoglitori”, con il ricavato del suo lavoro, ci campava contemporaneamente quattro famiglie.

Oggi quel mondo non esiste più. Tutto ciò che resta dei cenciaioli – fatta eccezione per le immagini di questo documentario, di alcune, bellissime fotografie e delle riprese nei notiziari – sono i raccoglitori di ferro che ancora, di tanto in tanto, si vedono girare per la città con i loro «lapini».
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