STORIA E TRADIZIONI
Vascelli fantasma, cavalli verdi e anime 'mpilluse: 7 storie (siciliane) per i Morti
Un mondo variegato di presenze, che fa da sfondo a conoscenze tramandate ed acquisite come quella di dove fisicamente risieda l’anima. Miti, storie e detti dell'Isola
La Luce e il Lutto, Eros e Thanatos Vita e Morte sono forze opposte presenti nell’identità Siciliana, che non teme, ma oscilla tra l’una e l’altra. Il rapporto con la luce i colori accesi un’energica vitalità si accompagna alla frequentazione con l’Oltre abitato da, spiriti, spiritelli, demoni, fate, maghe e logicamente i Morti, specie in questo periodo in cui si “mischia” Naturale e Soprannaturale.
Le leggende, storie, metafore, detti come quello ricordato da Sciascia “A bon’è ca si mori”, la morte come liberazione da una vita dura e complicata, e dove anche le fortune improvvise come il ritrovamento di un tesoro assume aspetti orrifici.
Le “Trovature” i tesori incantati sono costellati dalla morte, specie di bambini, obolo da pagare come estremo sacrificio, accompagnato da richieste bizzarre come quella dei 7 cavalli verdi non dipinti, (Trovatura di San Leonardo).
Pitrè annota nella sua ricerca un variegato numero di spiriti guardiani, di luoghi “affatati”, come il “Pircanti” di San Pietro Clarenza, che con un berretto rosso in testa e un grande sacco può rapire i bambini.
È un fiorire di narrazioni come quello della “messa dei morti di Isnello”, si racconta di una donna sentita la Campana della Matrice, si affrettò ad andare in chiesa, arrivando con la messa già iniziata; qualcuno le si avvicinò dicendole “Andate via questa Messa non è per voi, questa è la Messa dei morti “la donna scappò sentendosi chiedere pesantemente il portone alle spalle. Morti che tornano ma che non sono tutti uguali.
A Messina come a Palermo era speciale la Devozione per le “Anime Mpilluse”, le anime dei condannati a morte spesso ingiustamente come nel caso di Andrea Belluso la cui anima fu vista vagare, diventando oggetto di richieste e grazie spesso esaudite. Morto buono, Morto senza pace, come le vittime di omicidi, anime in pena o come quelle degli annegati in mare a Trapani, che si sporgono dalla nave impedendone l’avanzare, chiedendo suffragi e preghiere per essere degne del riposo eterno.
Non mancano i Vascelli Fantasma i cui alberi sono illuminati da una luce particolare iridescente, il fuoco di Sant’Elmo una scarica elettroluminescente con una colorazione viola. A metà tra diavolo e uomo c’è la Mamucca di Castroreale sempre pronto a far sparire oggetti e mettere confusione, o i fatuzzi di Trapani, uomini piccoli come gnomi strani ed astuti, o le fate di Isnello.
Un mondo variegato di presenze, che fa da sfondo a conoscenze tramandate ed acquisite come quella di dove fisicamente risieda l’anima, collocata dal popolo alla bocca dello stomaco “Vucca di l’arma” in posizione dritta. La variazione di questa sede potrebbe essere un problema, le lunghe agonie nascondono un’anima posta di traverso, incapace di uscire, come quando rimane incastrata nella bocca, “l’arma mpinta a le labbra”.
L’uscita dell’anima è un momento delicato, alcune donne raccontavano che queste potevano entravano nei corpi di parenti femminili provocando stati di malessere generale difficile da diagnosticare e che necessitavano dell’intervento di un religioso. Il lutto ha i suoi simboli e segnali, una volta gli uomini portavano una fascia nera al braccio, sostituito poi dal bottone nero sul risvolto della giacca, per le donne il nero dal collo alle scarpe è outfit che durava anni considerando che si accumulava ad altre morti famigliari, diventando di fatto un lutto a vita.
Gli specchi venivano oscurati, e sulla porta di casa veniva posta la Nzinga, un pezzo di stoffa come segnale. In questi rituali di morte non potevano mancare le Prefiche con le loro lamentazioni, gli immancabili orfanelli obbligati a far parte del corteo funebre, o il cibo portato ai parenti del morto, troppo impegnati nel dolore per potersi sfamare.
Tutto questo assumeva un aspetto ancora più doloroso per la morte dei bambini, situazione purtroppo frequente sino alla metà del 900. A questo proposito si riteneva che l’anima si staccasse dal piccolo di notte, motivo ulteriore per vegliarlo con particolare attenzione.
Con il morto era normale “jettare vuci” specie davanti a una grande foto “ritoccata”, davanti “all’alluttato con vestito e cravatta”, come scrive in un interessante articolo su Istituto Euroarabo, Angelo Campanella, che riporta alcuni modi di dire, “quannu murimu, tutt’in un pirtusu amm’aviri”, quando moriamo tutti in un posto andremo, o “a li muorti, morti unn’è”, dove vanno i morti?
È opinione che il luogo preposto sia il Purgatorio, a cui preventivamente si aggiungono almeno 30 giorni prima che le anime si rendano conto di non appartenere più al mondo dei vivi, periodo in cui vagano in attesa di “passare”, andando “casa casa, riva riva”, anafora che l’autore del saggio individua come rappresentazione di questo movimento. La morte è un evento che stravolge, a cui è impossibile prepararsi, “Lu stessu mortu impara a chiangiri” (il morto stesso insegna a chi rimane a piangere) e il “Chiarchiaru”, diventa il luogo dove sono destinati, termine particolare usato anche da Camilleri nel suo Montalbano che indicherebbe una pietraia, qualcosa non lontano dalle sepolture che anticamente avvenivano in grotte accompagnate da tumuli di pietre.
Non manca un lugubre indovinello che recita "Cu lu fa lu vinni, cu ll’accatta ‘un l’usa, cu l’usa ‘un lu vidi (chi lo fa lo vende, chi lo compra non lo usa, chi lo usa non lo vede), lascio a voi la soluzione dell’enigma. Se per caso tutto questo può sembrare un mero esercizio storico legato alla tradizione, mi sento di dissentire, qualche giorno fa ho visto su un social un video in cui un papà, del vituperato Zen, che si è “ripreso” mentre comprava le scarpe alle sue bambine affermando “le scarpe sono dei morti”; calzature, giocattoli e dolciumi, doni portati, ieri come oggi dai morti, tangibile perpetuazione e coesistenza di Luce e Lutto, Vita e Morte.
Le leggende, storie, metafore, detti come quello ricordato da Sciascia “A bon’è ca si mori”, la morte come liberazione da una vita dura e complicata, e dove anche le fortune improvvise come il ritrovamento di un tesoro assume aspetti orrifici.
Le “Trovature” i tesori incantati sono costellati dalla morte, specie di bambini, obolo da pagare come estremo sacrificio, accompagnato da richieste bizzarre come quella dei 7 cavalli verdi non dipinti, (Trovatura di San Leonardo).
Pitrè annota nella sua ricerca un variegato numero di spiriti guardiani, di luoghi “affatati”, come il “Pircanti” di San Pietro Clarenza, che con un berretto rosso in testa e un grande sacco può rapire i bambini.
È un fiorire di narrazioni come quello della “messa dei morti di Isnello”, si racconta di una donna sentita la Campana della Matrice, si affrettò ad andare in chiesa, arrivando con la messa già iniziata; qualcuno le si avvicinò dicendole “Andate via questa Messa non è per voi, questa è la Messa dei morti “la donna scappò sentendosi chiedere pesantemente il portone alle spalle. Morti che tornano ma che non sono tutti uguali.
A Messina come a Palermo era speciale la Devozione per le “Anime Mpilluse”, le anime dei condannati a morte spesso ingiustamente come nel caso di Andrea Belluso la cui anima fu vista vagare, diventando oggetto di richieste e grazie spesso esaudite. Morto buono, Morto senza pace, come le vittime di omicidi, anime in pena o come quelle degli annegati in mare a Trapani, che si sporgono dalla nave impedendone l’avanzare, chiedendo suffragi e preghiere per essere degne del riposo eterno.
Non mancano i Vascelli Fantasma i cui alberi sono illuminati da una luce particolare iridescente, il fuoco di Sant’Elmo una scarica elettroluminescente con una colorazione viola. A metà tra diavolo e uomo c’è la Mamucca di Castroreale sempre pronto a far sparire oggetti e mettere confusione, o i fatuzzi di Trapani, uomini piccoli come gnomi strani ed astuti, o le fate di Isnello.
Un mondo variegato di presenze, che fa da sfondo a conoscenze tramandate ed acquisite come quella di dove fisicamente risieda l’anima, collocata dal popolo alla bocca dello stomaco “Vucca di l’arma” in posizione dritta. La variazione di questa sede potrebbe essere un problema, le lunghe agonie nascondono un’anima posta di traverso, incapace di uscire, come quando rimane incastrata nella bocca, “l’arma mpinta a le labbra”.
L’uscita dell’anima è un momento delicato, alcune donne raccontavano che queste potevano entravano nei corpi di parenti femminili provocando stati di malessere generale difficile da diagnosticare e che necessitavano dell’intervento di un religioso. Il lutto ha i suoi simboli e segnali, una volta gli uomini portavano una fascia nera al braccio, sostituito poi dal bottone nero sul risvolto della giacca, per le donne il nero dal collo alle scarpe è outfit che durava anni considerando che si accumulava ad altre morti famigliari, diventando di fatto un lutto a vita.
Gli specchi venivano oscurati, e sulla porta di casa veniva posta la Nzinga, un pezzo di stoffa come segnale. In questi rituali di morte non potevano mancare le Prefiche con le loro lamentazioni, gli immancabili orfanelli obbligati a far parte del corteo funebre, o il cibo portato ai parenti del morto, troppo impegnati nel dolore per potersi sfamare.
Tutto questo assumeva un aspetto ancora più doloroso per la morte dei bambini, situazione purtroppo frequente sino alla metà del 900. A questo proposito si riteneva che l’anima si staccasse dal piccolo di notte, motivo ulteriore per vegliarlo con particolare attenzione.
Con il morto era normale “jettare vuci” specie davanti a una grande foto “ritoccata”, davanti “all’alluttato con vestito e cravatta”, come scrive in un interessante articolo su Istituto Euroarabo, Angelo Campanella, che riporta alcuni modi di dire, “quannu murimu, tutt’in un pirtusu amm’aviri”, quando moriamo tutti in un posto andremo, o “a li muorti, morti unn’è”, dove vanno i morti?
È opinione che il luogo preposto sia il Purgatorio, a cui preventivamente si aggiungono almeno 30 giorni prima che le anime si rendano conto di non appartenere più al mondo dei vivi, periodo in cui vagano in attesa di “passare”, andando “casa casa, riva riva”, anafora che l’autore del saggio individua come rappresentazione di questo movimento. La morte è un evento che stravolge, a cui è impossibile prepararsi, “Lu stessu mortu impara a chiangiri” (il morto stesso insegna a chi rimane a piangere) e il “Chiarchiaru”, diventa il luogo dove sono destinati, termine particolare usato anche da Camilleri nel suo Montalbano che indicherebbe una pietraia, qualcosa non lontano dalle sepolture che anticamente avvenivano in grotte accompagnate da tumuli di pietre.
Non manca un lugubre indovinello che recita "Cu lu fa lu vinni, cu ll’accatta ‘un l’usa, cu l’usa ‘un lu vidi (chi lo fa lo vende, chi lo compra non lo usa, chi lo usa non lo vede), lascio a voi la soluzione dell’enigma. Se per caso tutto questo può sembrare un mero esercizio storico legato alla tradizione, mi sento di dissentire, qualche giorno fa ho visto su un social un video in cui un papà, del vituperato Zen, che si è “ripreso” mentre comprava le scarpe alle sue bambine affermando “le scarpe sono dei morti”; calzature, giocattoli e dolciumi, doni portati, ieri come oggi dai morti, tangibile perpetuazione e coesistenza di Luce e Lutto, Vita e Morte.
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