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A Palermo i ninnariddari li scortava il "bilancino": la vecchia storia dei cantori orbi

Una vicenda che riporta alla luce l'importanza che avevano nel tramandare oralmente i racconti sacri e profani per poter sbarcare il lunario. Ve la raccontiamo

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 3 aprile 2024

Una vecchia foto di via Roma a Palermo

Sia da picciriddu che già granni, ho sempre avuto una grande passione per i fumetti, la quale mi portava, anche troppo spesso, a passare interi pomeriggi nelle uniche due fumetterie che c’erano ai tempi a Palermo.

Stavo lì a sfogliare albi vari e a decidere cosa acquistare o meno, con il limitatissimo budget a mia disposizione, discutendo con altri appassionati dei poteri o capacità dei supereroi, un po’ alla Big Bang Theory, con la differenza che non c’era nessuna ragazza bionda e di bell’aspetto con noi. Col tempo realizzai che pure io possedevo un superpotere.

Batman aveva la lanna e la tecnologia, Superman poteva volare e vedere sotto gli abiti con la vista a raggi X, Spiderman aveva le capacità proporzionali di un ragno e viveva con la zia, io molto più semplicemente avevo il superpotere di fare trunzi ri malafiura epocali.

Il mio fu un potere che sfoggiai fin da piccolo quando la mia amata genitrice, per contenere la liccardiuseria che mi contraddistingueva, mi ripeteva che dolciumi, rosticceria e quant’alto erano fatte di schifezze.
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Io recepii il messaggio talmente bene che una volta, essendo stato invitato al compleanno di un compagnetto, alla vista della tavola imbandita di brioscine al prosciutto, arancinette, calzoncini e patatine, esclamai a voce alta dinanzi a tutti, compresa mia madre «Mizzica quante schifezze!!!».

Ma siccome mi piace stupirvi con effetti speciali, l’ultima malafiura risale a non pochi giorni fa. In pausa pranzo, un collega mi presenta un amico che era venuto a trovarlo. Strette di mano, grandi sorrisi, "perciò cumpà" ... ma noto che il nuovo arrivato indossa gli occhiali da sole anche al chiuso.

Mah, alla fin fine, essendo particolarmente sensibile alla luce, pure io ho quasi sempre gli occhiali scuri inforcati, anche mentre piove. Ca’ macari, mischino, pure lui aveva un problema come il mio, ma più grave... .

Così come il galateo siciliano prescrive, a confidenza consolidata, si diventa amici e ci si ritrova al bancone del bar del il rituale del “amunì pigghiamune u cafè!”! Arrivano le tazzine fumanti, ed il nuovo amico chiede: «Ma dov’è lo zucchero?» e io, come sempre in precario equilibrio sulla sottilissima lama di rasoio tra il tascio ed il tascione, faccio, ridendo, la battutona del secolo: «Ma che si orbu? È li!».

Attimo di silenzio, io che realizzo, il panico sul volto ed Il tizio che solleva gli occhiali, fortunatamente ridendo, dicendomi «In effetti…», mostrado un lecoma corneale ca pareva disegnato con un pennarello. Avrei voluto stendere un muro di cemento armato pietoso spesso tre metri, ma cercai di sdrammatizzare.

«Eh… ma tu lo sai che una volta gli orbi, qui in Sicilia, erano persone importanti?». Gli orbi, intesi come ipovedenti di qualsiasi natura e grado, a Palermo e non solo, erano autori e dispensatori di musica e allegria.

Questi, chiamati dal popolo anche ninnariddari o sunatura, utilizzavano le loro doti di cantanti e musicisti, soprattutto di violino, marranzano e colascione, una specie di chitarra a forma di mandolino, in occasione di matrimoni e a feste in generale, mettendo in musica anche dei fatti di cronaca o le storie dei paladini e venendo ricompensati, dalla folla, con il lancio di favi a cunnigghiu.

A siggenza, ovvero il giusto compenso monentario per l’opera prestata, veniva poi discussa a parte da chi li aveva assoldati. Le prime tracce di orbi cantori e suonatori le possiamo trovare anche nei poemi Greci (e quanno mai direte voi ed avete ragione) e Omero stesso, parlando degli Aedi, ne elogia la cecità come una sorta di dono divino che gli avrebbe permesso di connettersi direttamente all’etereo mondo della musica e alle sue divinità.

I ninnariddari furono "indipendenti" fino ai primi del 600, quando i Gesuiti li riunirono in una congregazione, ufficialmente perché il canto, le lodi e la preghiera delle persone sofferenti erano cosa gradita e Dio, ufficiosamente perché così potevano sgubbarci, macari, un po’ di piccioli.

Degli orbi sonatori ne parla anche lo storico Francesco Gaetani, marchese di Villabianca "...li poveri orbi e ciechi di tutti e due gli occhi, che come è notissimo sogliono vivere col mestiere di cantare e recitare per le strade orazioni sacre e profane, e soprattutto improvesar poesie nelle feste plebee in onore de santi che fuori de tempij nelle piazze e contrade espongosi della città sono l’ istessi poeti popolari appellati ciclici poetae che fecero figura presso gli antichi in Italia a tempi de Greci e de Romani".

Ed ancora il nostro amato Pitrè diede loro il giusto merito "…i sonatori di violino in Sicilia sono quasi tutti ciechi e perciò chiamati per antonomasia orbi. L’orbo nato o divenuto tale nei suoi primi anni, non sapendo cosa fare, impara da fanciullo a sonare, e non solo a sonare, ma anche a cantare. Le molte feste popolari dell’anno gli danno sempre qualche cosa da guadagnare".

Ma naturalmente gli orbi non potevano spostarsi da soli da un punto ad un altro della città ca mica erano Daredevil, per cui ad occuparsi di questo era un ragazzetto di fiducia chiamato bilancino, a ricordo dei muli che aiutavano i cavalli a trasportare i carichi. Difatti stu picciuttieddu, oltre ad accompagnare, si occupava di condurre il carretto dove erano sistemati gli strumenti e controllava che il “datore di lavoro” non facesse il furbo al momento della siggenza.

Tra di loro usavano parlare una sorta di lingua inventata detta baccagghiu, in cui si invertivano sillabe e parole, ed era insegnata presso l’istituto dei ciechi, inizialmente creato dai Gesuiti nel 1655, sia per accogliere gli orbi, ma anche per chi, a causa di improvvisi impedimenti fisici dovuti alla vista, non poteva proseguire gli studi al conservatorio.

Quando nel 1767 i Gesuiti furono cacciati dalla Sicilia, venne meno il sostentamento all’istituto, che fu ripreso poi nel 1805 con il ritorno dell’ordine. Nel 1871 l’avvocato Antonino Morvillo, assessore alla pubblica istruzione, nella sua magnanimità decretò l’ultilizzo a gratis dell’Istituto per i bisognosi, e nel 1881 Camillo Finocchiaro Aprile costituì un comitato per il buon funzionamento dell’istituto, finché nel 1981, con una donazione di 200.000 lire da parte della famiglia Florio, che era a cucchiara i tutte i pignate, ne divenne presidente Ignazio Florio Jr, e trasferì il tutto alla Villa del Pegno ai piedi di monte Pellegrino, con il nome di "Istituto per ciechi Ignazio Florio".

In precedenza, nel 1854, Francesca Salamone da Ristretta, cieca dalla nascita, dispose che alla sua morte tutti i suoi averi venissero utilizzati per la fondazione di un ente che potesse occuparsi dell’assistenza ai ciechi poveri.

L’unificazione dell’opera di Ignazio Florio e Francesca Salamone, diede vita nel 1898, con regio decreto, all’attuale “Istituto per ciechi Florio e Salamone” anche detto "Casa protetta per cieche adulte".

Intanto gli orbi, sotto l’influenza ecclesiastica, dovettero variare il loro repertorio, da regolamento, facendolo virare ai soli testi sacri (regola che, comunque, veniva spesso infranta dagli stessi sonatori ne caso di qualche cavigghia).

In ogni caso, gli orbi cantori "ecclesizzati", furono un vero e proprio ponte tra il complicato latino e la parlata volgare del popolo, contribuendo non poco all’evangelizzazione di quest’ultimo. Ad oggi sono quasi del tutto scomparsi, l’ultimo fu Fortunato Giordano che nel 1989 accompagnò con le sue doti l’opera dei pupi di Mimmo Cuticchio.
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