STORIA E TRADIZIONI
Il ritornello in Sicilia lo conoscono tutti: la (vera) storia di "Quantu è laria la me zita"
Ciò che è meno noto è che questa canzone (tuttora senza autore) sembra sia stata ispirata da una storia vera. Un paesino qualunque, di un luogo qualunque dell'Isola

Plinio Fernando nelle vesti di Mariangela Fantozzi
Sono un intellettuale semplice, vecchio stampo. Di quelli che pensano ancora che un cucchiaio di miele al mattino possa cambiarti in meglio la giornata, e che poi finisce inevitabilmente a guardare vecchie foto di ex dopo aver finito l'ennesimo cruciverba in bagno, deprimendomi a fine serata con qualche film sconosciuto d’autorato francese, prima di prendere sonno.
A proposito del cinema francese d’autore, c’è una pellicola del 1977 di François Truffaut. Il film si apre con la scena di un funerale, quello del 40enne Bertrand Morane, ingegnere esperto di meccanica dei fluidi che lavorava in un istituto di ricerca.
Ebbene, al suo ultimo saluto si presentano solo donne, una caterva di donne, tutte le donne, amanti o ex amanti che ha avuto durante la vita. Ogni tanto fantastico (tutti facciamo fantasie macabre) e mi chiedo se al mio funerale un giorno ci saranno tutti quelli che ad un colloquio di lavoro mi hanno detto la frase: "Le faremo sapere".
Magari dovrei mandargli un invito ante mortem, ma tanto so già che mi risponderebbero con: “le faremo sapere…”. Comunque, per tornare alla questione del film di Truffaut, la scena che vi ho citato, per quanto assurda, è alla base di una delle canzoni popolari più cantate in Sicilia dall’alba dei tempi.
Eh sì, perché anche tra le canzoni popolari ci sono quelle "official", più istituzionalizzate, come "Vitti ‘na crozza", e quelle "unofficial", che, seppur meno nobili, fanno parte del nostro DNA, proprio come il pane cunzato, la ricotta nei dolci, i parcheggi in seconda fila.
Già, maledetti parcheggi! Non se ne trova uno…. Forse è tutta una questione di dimensioni? Una volta un saggio dal marsupio e il fischietto alla bocca mi disse: “le dimensioni non contano veramente, se sei bravo a parcheggiare!”. Per il consiglio datomi, mi obbligò ad offrigli un caffè. Ok, dato che non troviamo parcheggio, accendiamo la radio e torniamo alla canzone di cui stavamo parlando.
Il titolo è: “Quanto è laria la me zita”. Un must! Il testo della canzone, dando per assodato che anche i non siciliani oramai sappiano che "laria" significa "brutta", è uno dei più cantati dai siciliani di tutte le età.
La canzone, e questo è noto un po’ a tutti, è cantata dalla prospettiva del fidanzato, che, accompagnato da un tipico sound da ballata sicula, passa alla disamina, dalla testa ai piedi, di tutte le bruttezze della propria fidanzata.
L’incipit non promette nulla di buono: “Quantu è laria la me zita, tutta fràricia e purrita. Ahi, Laria è, chiù laria d’idda n’un ci n’è!”. Inizia così l’elenco, sterminato di difetti.
Per dovere di cronaca ne riportiamo il testo (uno dei testi, perché ci sono tante varianti):
“Havi i capiddi tisi tisi,
ppi spirugghialli ci vuoli un misi.
Havi l’occhi quantu un purtusu,
unu aperto e l’avutru chiusu.
Havi l’aricchi a paracqua,
unu ppu suli e l’avutru ppi l’acqua.
Havi lu nasu ca pari ‘n pagghiaru,
quannu chiovi mi ci arriparu.
Havi la vucca quantu ‘ncasciuni,
trasi e niesci un pistuluni.
Havi li spaddi comu ‘na cascia,
una chiù avuta e l’avutra chiù vascia.
Havi u pettu chianu chianu,
pari un funnu r’un tiànu.
Havi na panza quantu na vutti,
quannu camina fa ririri a tutti.
Havi li jammi ri ferru filàtu,
quannu camina abbuccatta di latu”.
Ovvero che "in compenso è piena i soldi che nascondono tutte le bruttezze, rendendola magari la più bella di tutte". Ecco, fin qui nessuna novità, poiché è quello che sapevamo un po’ tutti.
Ciò che invece è meno noto è che questa canzone (tuttora senza autore) sembra sia stata ispirata da una storia vera. Un paesino qualunque, di un luogo qualunque della Sicilia - può essere Carrapipi, come Joppolo Giancaxio -, ma che chiameremo Monte Arroccato, un giorno si svegliò a lutto. Le campane della chiesa annunciavano che qualche compaesano/a ci aveva lasciato prematuramente le penne.
A piangere vedovanza questa volta era un signor qualunque, un bracciante come tanti, che noi però chiameremo mastro Rosario, e che nella vita aveva avuto una sola fortuna: maritarisi la picciotta chiù bedda di tutto Monte Arroccato e paesi limitrofi. Manco a rinascere e maritarsi arrè altre sette volte ne avrebbe attrovata più una così bedda.
Non ci poteva pacere al povero Rosario. Piangeva, si disperava, si strappava i capelli, sperando che si trattasse solo di un brutto sogno. Tutti vennero a porgergli le condoglianze: Il parrino, Don Paolino, Il maresciallo, u dutturi Trinacria, che, proprio iddu, non era andato mai a fare visita a nuddu, ne manco a la so stissa moglie, perché si impressionava dei morti.
Certo, lo aveva sempre saputo Rosario di non avere sposato una Pinco Pallina, ma tastarne cotanto rispetto con mano lo fece sentire commosso ma soprattutto orgoglioso.
Ancora di più se la pianse: il giorno dopo, il giorno appresso e pure la notte prima del funerale. Quando giunse il mattino della cerimonia funebre poi fu peggio ancora. Non solo c’erano le suddette personalità paesane, ma c’erano anche i parrini, i marescialli, i mafiosi e i dutturi dei paesi vicini, senza né manco una femmina.
Rosario a quel punto lanciò occhiata a compare Nicola, l’unico di cui si era sempre fidato, che però gli fece spallucce. In quel preciso istante, in quello specifico gesto, Rosà aggiarnò e comprese che tra sentirsi orgoglioso e sentirsi orgoglione, passava una sottile ma immensa differenza. Della morte o della vita dopo la morte, in un attimo, non ne fu più sicuro, ma una cosa gli fu improvvisamente chiara come il sole di mezzogiorno, e cioè che lui stesso medesimo era senza ombra di dubbio il chiù granni cornuto di Monte Arroccato e forse di tutta la provincia.
Umiliato, annichilito, ferito nell’onore ma senza battere un ciglio, Rosà continuò a partecipare alla funzione esequiale, giurando sulla sua stessa anima di non lasciarsi mai più trasportare in futuro dalla bellezza esteriore, ma solo e soltanto dalla biddizza dei piccioli.
Fu il solenne momento in cui promise a sé stesso di maritarisi la chiù brutta femmina di tutto Monte Arroccato, ma al contempo la chiù ricca di tutto lu paisi.
Amen! E cosi, si racconta, nacque una delle canzoni popolari più conosciute della Sicila. Se si tratta di una storia vera o no, questo non lo possiamo accertare.
Possiamo dire però che ogni paese, ogni borgata, ogni rione, ha il suo Rosà, e forse magari più di uno. Possiamo affermare con altrettanta certezza, che, sì, tra tutti i più cinici e crudeli epiloghi, questo (“Ma in compenso havi li sordi, ca cummogghiano tutti l’imbrogghi. Ahi! Bedda è, chiù bedda d’idda n’un ci n’è!) è sicuramente uno dei più simpatici.
A proposito del cinema francese d’autore, c’è una pellicola del 1977 di François Truffaut. Il film si apre con la scena di un funerale, quello del 40enne Bertrand Morane, ingegnere esperto di meccanica dei fluidi che lavorava in un istituto di ricerca.
Ebbene, al suo ultimo saluto si presentano solo donne, una caterva di donne, tutte le donne, amanti o ex amanti che ha avuto durante la vita. Ogni tanto fantastico (tutti facciamo fantasie macabre) e mi chiedo se al mio funerale un giorno ci saranno tutti quelli che ad un colloquio di lavoro mi hanno detto la frase: "Le faremo sapere".
Magari dovrei mandargli un invito ante mortem, ma tanto so già che mi risponderebbero con: “le faremo sapere…”. Comunque, per tornare alla questione del film di Truffaut, la scena che vi ho citato, per quanto assurda, è alla base di una delle canzoni popolari più cantate in Sicilia dall’alba dei tempi.
Eh sì, perché anche tra le canzoni popolari ci sono quelle "official", più istituzionalizzate, come "Vitti ‘na crozza", e quelle "unofficial", che, seppur meno nobili, fanno parte del nostro DNA, proprio come il pane cunzato, la ricotta nei dolci, i parcheggi in seconda fila.
Già, maledetti parcheggi! Non se ne trova uno…. Forse è tutta una questione di dimensioni? Una volta un saggio dal marsupio e il fischietto alla bocca mi disse: “le dimensioni non contano veramente, se sei bravo a parcheggiare!”. Per il consiglio datomi, mi obbligò ad offrigli un caffè. Ok, dato che non troviamo parcheggio, accendiamo la radio e torniamo alla canzone di cui stavamo parlando.
Il titolo è: “Quanto è laria la me zita”. Un must! Il testo della canzone, dando per assodato che anche i non siciliani oramai sappiano che "laria" significa "brutta", è uno dei più cantati dai siciliani di tutte le età.
La canzone, e questo è noto un po’ a tutti, è cantata dalla prospettiva del fidanzato, che, accompagnato da un tipico sound da ballata sicula, passa alla disamina, dalla testa ai piedi, di tutte le bruttezze della propria fidanzata.
L’incipit non promette nulla di buono: “Quantu è laria la me zita, tutta fràricia e purrita. Ahi, Laria è, chiù laria d’idda n’un ci n’è!”. Inizia così l’elenco, sterminato di difetti.
Per dovere di cronaca ne riportiamo il testo (uno dei testi, perché ci sono tante varianti):
“Havi i capiddi tisi tisi,
ppi spirugghialli ci vuoli un misi.
Havi l’occhi quantu un purtusu,
unu aperto e l’avutru chiusu.
Havi l’aricchi a paracqua,
unu ppu suli e l’avutru ppi l’acqua.
Havi lu nasu ca pari ‘n pagghiaru,
quannu chiovi mi ci arriparu.
Havi la vucca quantu ‘ncasciuni,
trasi e niesci un pistuluni.
Havi li spaddi comu ‘na cascia,
una chiù avuta e l’avutra chiù vascia.
Havi u pettu chianu chianu,
pari un funnu r’un tiànu.
Havi na panza quantu na vutti,
quannu camina fa ririri a tutti.
Havi li jammi ri ferru filàtu,
quannu camina abbuccatta di latu”.
Ovvero che "in compenso è piena i soldi che nascondono tutte le bruttezze, rendendola magari la più bella di tutte". Ecco, fin qui nessuna novità, poiché è quello che sapevamo un po’ tutti.
Ciò che invece è meno noto è che questa canzone (tuttora senza autore) sembra sia stata ispirata da una storia vera. Un paesino qualunque, di un luogo qualunque della Sicilia - può essere Carrapipi, come Joppolo Giancaxio -, ma che chiameremo Monte Arroccato, un giorno si svegliò a lutto. Le campane della chiesa annunciavano che qualche compaesano/a ci aveva lasciato prematuramente le penne.
A piangere vedovanza questa volta era un signor qualunque, un bracciante come tanti, che noi però chiameremo mastro Rosario, e che nella vita aveva avuto una sola fortuna: maritarisi la picciotta chiù bedda di tutto Monte Arroccato e paesi limitrofi. Manco a rinascere e maritarsi arrè altre sette volte ne avrebbe attrovata più una così bedda.
Non ci poteva pacere al povero Rosario. Piangeva, si disperava, si strappava i capelli, sperando che si trattasse solo di un brutto sogno. Tutti vennero a porgergli le condoglianze: Il parrino, Don Paolino, Il maresciallo, u dutturi Trinacria, che, proprio iddu, non era andato mai a fare visita a nuddu, ne manco a la so stissa moglie, perché si impressionava dei morti.
Certo, lo aveva sempre saputo Rosario di non avere sposato una Pinco Pallina, ma tastarne cotanto rispetto con mano lo fece sentire commosso ma soprattutto orgoglioso.
Ancora di più se la pianse: il giorno dopo, il giorno appresso e pure la notte prima del funerale. Quando giunse il mattino della cerimonia funebre poi fu peggio ancora. Non solo c’erano le suddette personalità paesane, ma c’erano anche i parrini, i marescialli, i mafiosi e i dutturi dei paesi vicini, senza né manco una femmina.
Rosario a quel punto lanciò occhiata a compare Nicola, l’unico di cui si era sempre fidato, che però gli fece spallucce. In quel preciso istante, in quello specifico gesto, Rosà aggiarnò e comprese che tra sentirsi orgoglioso e sentirsi orgoglione, passava una sottile ma immensa differenza. Della morte o della vita dopo la morte, in un attimo, non ne fu più sicuro, ma una cosa gli fu improvvisamente chiara come il sole di mezzogiorno, e cioè che lui stesso medesimo era senza ombra di dubbio il chiù granni cornuto di Monte Arroccato e forse di tutta la provincia.
Umiliato, annichilito, ferito nell’onore ma senza battere un ciglio, Rosà continuò a partecipare alla funzione esequiale, giurando sulla sua stessa anima di non lasciarsi mai più trasportare in futuro dalla bellezza esteriore, ma solo e soltanto dalla biddizza dei piccioli.
Fu il solenne momento in cui promise a sé stesso di maritarisi la chiù brutta femmina di tutto Monte Arroccato, ma al contempo la chiù ricca di tutto lu paisi.
Amen! E cosi, si racconta, nacque una delle canzoni popolari più conosciute della Sicila. Se si tratta di una storia vera o no, questo non lo possiamo accertare.
Possiamo dire però che ogni paese, ogni borgata, ogni rione, ha il suo Rosà, e forse magari più di uno. Possiamo affermare con altrettanta certezza, che, sì, tra tutti i più cinici e crudeli epiloghi, questo (“Ma in compenso havi li sordi, ca cummogghiano tutti l’imbrogghi. Ahi! Bedda è, chiù bedda d’idda n’un ci n’è!) è sicuramente uno dei più simpatici.
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