CINEMA E TV
L'Apocalisse a Palermo in "Un film fatto per Bene": la città senza speranza di Maresco
Abbiamo visto l’ultimo lavoro del regista, in sala con Lucky Red, che parla della fine di un mondo che si sta spegnendo, mentre viene perpetuata l’illusione d’esserci salvati

Una scena da "Un film fatto per Bene" di Franco Maresco
Sono impressioni di una città in cui per rima poetica prima o poi tutto finirà, si ridurrà a nulla, l’opposto della creazione che è l’annichilimento dell’universo intero, giusto un puntino vivo e per un secondo luminoso, a cui tutto il rumore bianco delle vecchie televisioni a tubo catodico si riduceva quando venivano spente.
"Un film fatto per Bene", l’ultimo lavoro di Maresco, in sala con Lucky Red, parla esattamente di questa fine, di un’Apocalisse in cui il mondo sta lentamente discendendo, o in cui forse è già disceso, mentre viene perpetuata l’illusione d’esserci salvati.
Forse, per un incomprensibile paradosso della fisica, siamo già dentro il buco nero, ma il tempo s’è dilatato – o ristretto – talmente tanto da illuderci d’essere ancora sull’orizzonte degli eventi, di poter invertire la corrente, di avere la possibilità di cambiare le cose. E invece siamo già precipitati, di più, spariti, annichiliti, annullati.
La storia – sempre che di storia in "Un film fatto per Bene" si possa parlare – è molto semplice: intento a realizzare un film su Carmelo Bene e la sua folgorazione per san Giuseppe Desa da Copertino, le cose per Maresco vanno male con la produzione e lo portano – già nel pieno di una crisi personale – a sparire nel nulla.
A fare di tutto per ritrovarlo sarà il suo amico, e in qualche modo confessore, l’attore Umberto Cantone, accompagnato sui luoghi in cui era stato girato il poco del film su Carmelo Bene che è stato portato a casa.
In realtà è tutto soltanto un pretesto per raccontare, ancora una volta, Palermo, che stavolta, dal racconto/non racconto di Maresco, dal suo flusso di coscienza reso per video d’archivio, riprese di backstage, fotografie di scena, estratti in pellicola, è un mondo ormai privo di forma, neanche quella post-guerra nucleare in cui erano messi in scena i corti di Cinico TV.
Sopravvive soltanto, ma come se fosse il calco sgretolato rimasto al risveglio di un sogno, la costa sud di Palermo, in un punto imprecisato tra lo Sperone e Brancaccio, o Acqua dei Corsari, o Settecannoli, quello in cui più o meno si apriva "Lo zio di Brooklyn", e a cui Maresco è tuttora molto legato.
Da lì, come si racconta nel film, c’è una vista bellissima di Monte Pellegrino, un angolo che la fa apparire come una montagna provvidenziale, emersa dalle acque come la Venere di Botticelli, l’unico appiglio a cui ci si potrebbe aggrappare. Ma è un’illusione, niente più.
La città – che non è soltanto Palermo, è qualsiasi altra città al mondo, anzi è il mondo, o l’universo intero – è irredimibile, senza speranza, senza senso come è senza senso l’appartamento dell’attore Nick Merendino che Maresco all’inizio del film abbandona: numeri sparsi sono scritti alle pareti («7, 14, 21, 28, 23 – non capisco questa pazzia di questo grande regista, che me l’ha presentato il mio amico, questo grande regista Franco Maresco», dice proprio l'attore e truccatore Nick Merendino in una delle prime scene), avanzi di cibo, acqua e scorte di farmaci sono lasciati a terra, gli occhi vagano frastornati dalla luce.
Sembra che chiunque abbia conferito al mondo, a Palermo, un ordine, abbia infine lasciato il posto vacante, e adesso i pazzi vaghino per la terra come i morti viventi di Romero, o gli abitanti del carcere di massima sicurezza di Manhattan del film «1997: fuga da New York».
Franco Maresco era già stato molto critico nei confronti dell’amministrazione Orlando, durante un incontro memorabile organizzato nel 2019, sei anni fa, per "Una Marina di Libri". «Vedo una periferia – disse allora Maresco – che è la periferia ormai piatta, non quella pasoliniana» di una volta, «una periferia di gente che è sminchiata dallo smartphone, comunque di miseria, di situazione, ma di gente devastata».
Già allora veniva fuori dalla visione del regista una città di «zombi, di cellulari continuamente… di braccia tese, di passìo, sembra una fiera del Mediterraneo parte seconda», che diventava però simbolo globale, di una perdita d’identità completa, come il flâneur parigino di Walter Benjamin, l’uomo intrappolato nei passages parigini che non riesce più a trovare il senso della società in cui vive, della città in cui cammina, del mondo in cui riversa e da cui costruisce i suoi pensieri.
"Un film fatto per Bene" pare dialogare esattamente con questo universo, che Maresco pure cerca di ordinare, di sistemare demiurgicamente, richiamando nel tentativo gli attori con cui ha iniziato a colonizzare il proprio immaginario.
Li porta tra le montagne dell’entroterra siciliano, su pianori in cui santi afasici si ritrovano a levitare in scena, e finisce che sul set il mondo, il caso, ne tiri giù uno dai cavi (non si sa se l’incidente si è veramente verificato o meno) facendo schiantare al suolo la giornata di riprese.
Li sposta nella storica sede di TVM, a Palermo, in un teatro di posa in una traversa di via Terrasanta, in cui prova a farli prima «depensare» per poi cercare di farli calare nei ruoli che darebbero un senso al film, al suo lavoro, al suo mondo.
E anche qui non c’è verso. Finisce malissimo: attori che dimenticano le battute, che non riescono quasi a parlare, in un gioco di assurdi che è difficile anche seguire se non abbandonandosi al sentiero appena appena tratteggiato.
E allora proprio questo sentiero Maresco cerca di seguire, solo che nessuno attorno a lui pare capirlo: quando, durante una notte di riprese attorno a un fuoco, fa ballare un pezzo di Louis Prima a san Giuseppe Desa da Copertino insieme a un nano vestito da Pulcinella, come se i due fossero nativi americani che propiziano la pioggia – pioggia che poi, infatti, magicamente arriva… – tutti nella troupe pensano che la scena sia sfuggita al controllo del regista, che lui non sia più in grado di dare una direzione.
I ciak si accumulano, gli attori si trasformano in sagome, il fuoco si spegne, e la produzione blocca il film. E se fosse, invece, che Maresco in quel momento aveva scoperto il trucco, l’inganno, e provava a vincerlo, ingannandolo a sua volta?
Se fosse che san Giuseppe Desa da Copertino, e il critico cinematografico Francesco Puma, e il qui quasi-lynchano Ciccio Mira, e Bernardo, e Antonio Rezza che fa la Morte, e il volto di Carmelo Bene, fossero soltanto delle maschere messe a nascondere il fatto che il mondo è finito, che esattamente come pare non esserci un senso nelle vicende raccontate, non c’è più senso in nessuna vicenda da raccontare, e allora l’unica cosa da fare è dissolversi, levitare verso il grande vuoto, così che gli altri, guardando in alto, possano togliersi gli occhiali da sole di John Nada e vedere il mondo per quello che è davvero?
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