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La Sicilia che brucia e che canta: Carmen Consoli sfida il silenzio con "Amuri Luci"

Cantato in siciliano, latino, arabo e greco antico, il disco esplora temi di violenza, memoria e impegno politico, in sintonia con il presente storico che stiamo vivendo

Salvo Caruso
Content creator
  • 7 ottobre 2025

Carmen Consoli

È una Sicilia di terra e di fuoco quella che Carmen Consoli racconta nel suo nuovo album Amuri Luci. Una Sicilia che parla nella sua lingua madre, ma anche in latino e greco antico. È un disco che ti scava dentro, che non accarezza ma morde, e poi si trasforma in luce.

Dimenticate la voce fragile di "Parole di burro" o "L’ultimo bacio", che hanno reso la Cantantessa una delle più grandi cantautrici italiane. Quella delicatezza di un tempo, che scorreva come un fiume lento, qui diventa una vampa viva. Quando Carmen inizia a cantare nella sua lingua d'origine, non ha paura di mostrare il suo lato più critico e politico.

Lo si capisce subito, dalla prima traccia, "Amuri Luci" proprio come il titolo del disco, dove scrive: "Impastato con il sangue scorre il pianto di tua madre e tu raccogli per la strada pezzi di tuo fratello". Un riferimento forte, che non ha bisogno di spiegazioni. È un brano che denuncia la violenza in ogni sua forma e si chiude con parole che suonano come un manifesto, perfettamente in sintonia con il tempo che stiamo vivendo. "Amore e luce per non dimenticare cosa siamo, finché ci resta un filo di voce".

Durante la conferenza stampa di presentazione del nuovo lavoro, l'artista non ha nascosto la sua posizione politica, dichiarando: “Prenderei la mia imbarcazione posteggiata ad Aci Trezza e raggiungerei Gaza. Ci metterei tempo perché non ho i mezzi del governo italiano, ma lo farei. Come dice la mia grandissima amica Elisa nel suo appello, sbrigatevi: la gente muore".

Amuri Luci è anche il primo capitolo di una trilogia che esplorerà le tre anime della Cantantessa: questa, legata alla terra e alle radici, la prossima, dedicata al ritorno al rock della Catania underground e infine quella più cantautorale.

Un altro elemento che segna è la copertina del disco, dove Carmen Consoli si presenta con una chioma di capelli lunga e selvaggia, un’immagine inedita che potenzia ulteriormente la poetica delle radici. È un disco lontano dalle logiche radiofoniche, ma perfettamente dentro il presente, in un momento in cui la musica folklorica e popolare sta tornando ovunque nel mondo con la sua forza antica e la sua speranza collettiva.

Lo dimostrano artisti di fama mondiale come il portoricano Bud Bunny — che sarà protagonista del prossimo Super Bowl — o, in Italia, La Niña, che ha riportato il folklore partenopeo al centro della scena. In questo senso, il passo di Consoli è quasi naturale. E l’impronta di Rosa Balistreri è evidente, complice anche l’ultima esperienza della Cantantessa nel film Tutto l’amore che ho di Paolo Licata, dedicato proprio alla vita della Balistreri, per cui Carmen ha curato le musiche e interpretato un cameo.

Gli undici brani e i tre duetti del disco formano un mosaico sonoro e culturale. In "La terra di Hambis", Mahmood presta la sua voce con una sorprendente padronanza dialettale, intrecciando versi del poeta siculo-arabo Ibn Hambis (XI secolo). È un brano che parla di migrazioni e identità che si spostano, dove i suoni arabi si fondono con la tradizione siciliana.

Il secondo duetto, "Parru cu tia", è un inno alla ribellione scritto da Ignazio Buttitta, con Jovanotti che interpreta l’unica parte in italiano, rappandola con forza e rispetto. Poi arriva "Qual sete voi", il brano più luminoso del disco, cantato in latino insieme al tenore Leonardo Sgroi. Ispirato allo scambio epistolare tra Dante da Maiano e Nina da Messina — la prima donna a poetare in volgare — è una perla in equilibrio tra antico e contemporaneo. Tra i brani più intensi c’è "Mamma Tedesca", ancora su testo di Buttitta: una lettera piena di dolore scritta alla madre di un soldato tedesco ucciso in guerra dallo stesso poeta. Forse il momento più emotivo del disco.

Non mancano i riferimenti ale figure storiche e poetiche legate alla Sicilia, come in "Nimici di l’arma mia", ispirato a Graziosa Casella, poetessa catanese del Novecento, che racconta la fine di un amore e la maledizione di un sentimento che si spegne. In Galateia, Carmen canta in greco antico, interpretando il mito di Galatea con una potenza teatrale che fa pensare più a una rappresentazione scenica che a una canzone.

C’è spazio anche per la leggerezza e la vita quotidiana: "Unni t’ha fattu a stati" riprende un detto popolare per raccontare gli opportunisti, mentre 3 oru 3 oru — il gioco delle tre carte — parla di doppie vite, amori e tradimenti. Infine Comu veni, veni ironizza su chi parla troppo e riflette poco, chiudendo un ciclo di storie che mescolano popolo, memoria e poesia.

È un disco suonato in presa diretta, quasi come un rito. «È stato realizzato in gran parte in presa diretta. Avevo trovato una chitarra classica appartenente a una mia trisavola, mi sono messa a suonarla e sono nate le canzoni. Forse perché mi connetteva con le radici di famiglia." ha raccontato l'artista "Poi ho chiamato i musicisti e ho chiesto: le arrangiamo assieme? Nella mia casa di campagna, mentre mia madre cucinava, siamo ingrassati e abbiamo suonato. E ci siamo divertiti con la musica».

E quella magia si sente. Amuri Luci è un lavoro che respira di terra e di mare, di voce viva e corpo che vibra. Un disco che non accarezza, ma incendia.
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