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62° Mostra del Cinema di Venezia: la laguna delle utopie

  • 19 settembre 2005

I bilanci sono presto fatti: la 62° Mostra del cinema di Venezia appena conclusa ha regalato il suo Leone d’Oro al bellissimo e struggente film di Ang Lee, “Brokeback Mountain”, storia di fragilità e virilità di due cowboy nell’America del Mito, in un periodo che va dall’inizio degli anni ’60 alla metà degli anni ’70. Un luogo, quello del titolo, dove si possono spargere le ceneri al vento e dove è possibile imprimere nella memoria il ricordo indelebile di un amore, un luogo simile a quello di “I ponti di Madison County” di Eastwood. Abbiamo visto Orlando Bloom viaggiare sugli stessi sentieri del Kentucky negli ultimi, indimenticabili venti minuti del folgorante “Elizabethtown”, un viaggio che diventa metafora di epifanie e rigenerazioni, seppure mosso dall’evento funereo della morte del padre (la colonna sonora rock è da brivido!): è una delle commedie americane più belle degli ultimi anni, una storia sui fallimenti gloriosi della generazione della memoria, che distilla con pudore lacrime e sorrisi. Il Leone d’Argento per la migliore regia è andato allo straordinario affresco sulla Parigi del ’68 di “Les amantes réguliers”, diretta dal regista di culto Philippe Garrell: una storia aspra d’amore e di morte, lunga tre ore, con un formidabile bianco e nero sgranato, per la quale ha ricevuto l’Osella (grazie al contributo tecnico) il direttore della fotografia William Lubtchansky, già collaboratore di Godard. La Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile è stata vinta dall’ottimo David Strathairn di “Good night, and good luck” di George Clooney, film che si è pure guadagnato l’Osella per la migliore sceneggiatura firmata dal regista insieme a Grant Heslov.

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Ancora una volta in bianco e nero, Clooney ci trasporta negli studi televisivi della CBS nel 1953, ai tempi del maccartismo, e compone il suo teorema dedicato a quei giornalisti coraggiosi che hanno lottato in nome delle verità e della libertà. Migliore interprete femminile è stata la nostra Giovanna Mezzogiorno per il bel film della Comencini, “La bestia nel cuore”, anche se la giuria presieduta da Dante Ferretti ha dovuto ricorrere ad un riesumato premio speciale alla carriera per dare un giusto riconoscimento alla straordinaria Isabelle Huppert di “Gabrielle”, una raffinata lezione di cinema che incontra il teatro, firmata da un ispirato Patrice Chéreau. La bravura della Mezzogiorno non è in discussione, anche se in gara i talenti femminili sono stati numerosi e tutti altrettanto meritevoli di premi. Ménothy Cesar, l’aitante attore di colore di “Vers le sud” di Cantet, che soddisfa i desideri di tre turiste del sesso ha ricevuto il premio “Marcello Mastroianni” come emergente, mentre il premio della Giuria è andato al sofferto “Mary” di Abel Ferrara, straziante riflessione sul potere della Fede con una Binoche capace di far palpitare la propria identificazione quasi medianica con la figura di una Maria Maddalena a confronto con la crisi spirituale di un conduttore televisivo, Forest Whitaker, impegnato a condurre una trasmissione sulla vita di Gesù. Ci rendiamo conto che l’elenco è infinito: del resto, l’edizione di ottimo livello firmata dal direttore Marco Műller è cominciata con il potentemente epico e spettacolare “Seven swords” di Tsui Hark e si è conclusa con il lussuoso e melodrammatico musical di Peter Ho-sun Chan, “Perhaps love” (storia d’amore ambientata a Shanghai, tra verità e finzione): due eventi che meriterebbero delle note a parte.

E proprio Shanghai fa da sfondo al notevole melò di Stanley Kwan, “Everlasting regret”, una saga che dal 1947 al 1981 traccia un paradigma storico che ha per protagonista l’attrice Sammi Cheng, capace con la sua bellezza di bucare lo schermo e destinata a diventare la nuova diva glamour del cinema orientale. Ancora oriente con “Sympathy for Lady Vengeance” del sudcoreano Park Chan-wook che così ha concluso la sua trilogia sulla vendetta: questo è davvero uno dei film più belli presentati al festival, col suo coraggioso, struggente lirismo e con l’attrice Lee Young-ae che sicuramente meritava di essere premiata. Presentato fuori concorso il Tim Burton del nuovo capolavoro in stop motion, “Corpse bride” (diretto in collaborazione con Mike Johnson), toccante favola dark su una sposa che non ha mai conosciuto il vero amore e quindi torna a far parte del regno dei vivi per impalmare Victor, a cui presta la voce il fedele Johnny Depp. Un musical pieno di tenerezza (ed un altro straordinario personaggio femminile) che conferma il talento visionario di Burton, uno dei più grandi narratori contemporanei. Anche nel più volte rimandato “The brothers Grimm” la visionarietà la fa da padrone, ma Gilliam non sembra ispirato come altre volte e in certi passaggi si ha la sensazione di trovarsi dalle parti di “Fantaghirò”.

Con “Romance & Cigarettes”, il bravo John Turturro ha realizzato un divertentissimo musical sulla classe operaia, facendosi produrre dai fedeli fratelli Coen, mentre John Madden con il suo “Proof” ha diretto un film mediocre e manierato. Per quanto riguarda gli italiani, “I giorni dell’abbandono” di Faenza è uno dei peggiori film di questo festival, “Musikanten” di Battiato e “Texas” di Paravidino , entrambi visti in “Orizzonti”, sono veramente desolanti. Una conferma viene invece da “La seconda notte di nozze”, uno dei film più intensi del Pupi Avati recente con una sorprendente Katia Ricciarelli e un magnifico Antonio Albanese chiuso nel suo doloroso silenzio di matto dal cuore semplice. Tornando alla sezione “Orizzonti”, da rilevare titoli notevoli come “Everything is illuminated”, diretto dall’attore Liev Schreiber, che affronta il dramma degli ucraini basandosi su un testo di Jonathan Safran Foer, o come il notevole “La vida secreta de las palabras” di Coixet, o il bellissimo documentario di Herzog, “The wild blue yonder”, o gli interessanti made in Cina “Hongyan” di Li Yu e “Wuqiong dong” di Ning Ying, o “Drawing Restrasint 9” (per la verità, un po’ indigesto), protagonista Bjork diretta dal marito Matthew Barney. Tra i film in concorso ricordiamo sia l’ultimo capolavoro di Manoel de Oliveira, “Espelho magico”, che “Persona non grata”, con il quale Zanussi firma una delle sue pellicole migliori, insieme al nuovo gioiello di Takeshi Kitano, “Takeshis’” e allo spiazzante “O fatalista” di Bothelo tratto da Diderot.

Ci ha deluso invece il convenzionale “The constant gardner” di Meirelles, da un romanzo di La Carrè, contro le attività illegali della compagnie farmaceutiche in Africa. Giusto poi ricordare la raffinata e divertente commedia francese, “Le parfum de la dame in noir” di Bruno Podalydés, presentata fuori concorso come “Edmond”, che reca la firma in sceneggiatura di David Mamet ed è diretto da Stuart Gordon che guida l’intensa interpretazione di William H. Macy. Vedere tutti questi film non è stata impresa da poco: dati i tempi, la Biennale di quest’anno si è blindata con severe misure di sicurezza che hanno ingolfato le entrate al palazzo del Casinò. Ma anche il tono di molte pellicole ha risentito dello stato delle cose e le tematiche affrontate hanno saputo svelare universi sconosciuti, come nel caso di “All the invisible children”, dedicato ai bambini che sopravvivono ai margini della società. Dunque una mostra insieme equilibrata e coraggiosa, che ci ha presentato un corpus organico di opere in grado di guardare al presente più che al passato. Un cinema nuovo, poco nostalgico, legato solo criticamente alla tradizione. Un cinema dove a dominare è l’identità femminile, foriera di passioni aspre e violente, e dove il maschio svela una fragilità (che è quella della Storia) capace di autocritica nel suo abbandonarsi alla dimensione del sogno. La Venezia lunare di quest’anno ci ha raccontato le nuove possibilità di tutte quelle utopie che, esorcizzando le ansie e i lutti delle odierne nevrosi, invitano soprattutto ad amare la vita e, quindi, il cinema.

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