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L'ultima scena del teatro che fu

  • 8 giugno 2006

RADIO AMERICA (A Prairie Home Companion)
U.S.A., 2006
Di: Robert Altman
Con: Woody Harrelson, Tommy Lee Jones, Garrison Keillor, Kevin Kline, Lindsay Lohan, Virginia Madsen, John C. Reilly, Maya Rudolph, Meryl Streep, Lily Tomlin, MaryLouise Burke, L.Q. Jones

La morte si aggira dietro le quinte di un teatro. Ha le sembianze di una donna che indossa un cappotto bianco, mentre per una celebre serie radiofonica sembra arrivato il canto del cigno. Il pericoloso angelo nero ha il volto inquieto ed inquietante della brava attrice Virginia Madsen, la quale appare legata al destino della più longeva trasmissione d’America (una prematura chiusura, immaginata da Altman), impareggiabile mezzo di diffusione della musica country e folk eseguita dal vivo, fin dal 1974. Il programma esiste davvero e si chiama “A Prairie Home Companion” (come il titolo originale di questo film): ovviamente continua ad essere seguito e con ottimi ascolti. Ma è la finzione ad interessarci, quella dell’ultimo e splendido film dell’autore di “Nashville”. Un autentico gioiello da noi uscito con il titolo di “Radio America”.

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Altman immagina l’ultima giornata di vita del “Fitzgerald Theater” nel Minnesota prima della sua definitiva demolizione che spegnerà pure i microfoni in essa ospitato. Fine di mondo ed evocazione di decadenza in questa pellicola corale che mette insieme alcuni tra gli attori migliori d’America. C’è la stessa nostalgia, forse più acre, presente in quel gioiello di Woody Allen, “Radio Days”, la malinconia profonda per un’America che non c’è più, il tutto condito dalla solita ironia tagliente di Altman (godetevi pure una lunga sequenza di spot recitato dal conduttore del programma trasformato in uno sketch da antologia). A restituirci clima ed umori contribuisce la magistrale fotografia di Ed Lachman, capace di rendere concreta l’ombra funerea che aleggia su questo luogo che somiglia ad un mausoleo e dove tutti i personaggi sembrano partecipare ad una sonata di fantasmi, però molto glamour e un tantino kitsch.

Così incontriamo il cinico cacciatore di taglie Tommy Lee Jones (a cui Altman riserva un ironico destino) e poi un mitico attore di Peckinpah, L.Q. Jones, qui nel ruolo di un cantante vittima di un infarto dopo l’ultima esibizione mentre, nel suo camerino, un giradischi suona i suoi motivi preferiti. E’ questo il tragico ed emblematico evento centrale che fa da cornice alla storia sceneggiata da Garrison Keillor che è peraltro il vero conduttore della leggendaria trasmissione e che per l’occasione interpreta se stesso. Un bellissimo momento di autentica commozione ce lo offre la strepitosa coppia formata da Meryl Streep e Lily Tomlin, le Johnson Sisters che sciorinano le loro canzoni intrise di retorica malinconia (sentire le due attrici cantare dal vivo è una occasione tutta da godere, soprattutto per merito della Streep che si conferma ancora una volta immensa).

Non dimentichiamo, in questo vivido museo delle cere, i cowboy Dusty (Woody Harrelson) e Lefty (John C. Reilly) con i loro testi arditi, capaci di suscitare scandalo. E’ davvero una colonna sonora preziosa, questa di “Radio America”, imperdibile per tutti gli appassionati del genere. Altro volto indimenticabile è poi quello di Maya Rudolph che arriva direttamente da quella fucina di talenti comici che è stato e continua ad essere il “Saturday Night Live” e che qui ci delizia con la sua Molly, la direttrice del teatro in dolce attesa. Lindsay Lohan, che con questo film si lascia alle spalle una onorata carriera per la Disney, fa l’adolescente cresciuta, figlia di Meryl Streep, la triste Lola che scrive canzoni con storie di suicidi e di morte.

Certamente, “Radio America” si presenta come ideale seguito di quel cult che rimane “Nashville”: in quel caso la morte di una diva della pop music, uccisa da un fanatico, tirava in ballo il destino amaro di una nazione in piena era Watergate e post- Vietnam dove le leggi dello show-businnes coincidevano con le regole della politica gestita dagli affaristi. Altman non mostra di aver cambiato parere sul proprio paese e sulla sua etica post-moderna, sui principi che sembrano regolare il nuovo ordine delle cose, l’andazzo del potere e la way of life dei suoi comuni cittadini-sudditi. In questo “Radio America” persiste il medesimo, struggente pessimismo di “America oggi”, con i suoi cadaveri rimossi e i suoi terremoti annunciati. Se quel film confermò (nella non casuale occasione della vittoria ex-aequo del Leone d’Oro a Venezia assieme a “Film Blu” di Kieślowski) la qualità “europea” (quindi disincantata, critica e amara più del fiele) dello sguardo altmaniano, quest’ultimo capolavoro dell’estrema maturità ci rimanda l’implacabilità di una visione senza speranze, stemperata però in un mezzo sorriso degno di un demiurgo del cinema (e simile a quello del sommo Kubrick).

Da questa prospettiva godiamoci “l’ultima” scena del teatro smantellato nel quale però continua a suonare il pianoforte l’agente della Security Guy Noir, un disilluso Kevin Kline in un suo cameo doc. La fine dell’illusione è anche la fine della musica? Nel suo acidissimo apologo, Altman sembra suggerircelo, esaltando i bei tempi nei quali le canzoni sapevano raccontare la porzione di mondo da cui provenivano. Il vero miracolo è che l’ammonizione di questo grande autore riesce ancora ad incidere: il segno che ha lasciato negli spettatori di “Radio America”, presenti davanti agli schermi dell’ultimo Festival di Berlino, ne è la prova inconfutabile. Accodatevi pure a loro, da privilegiati, per una straordinaria occasione di fine stagione.

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